Sono oltre 600 mila i pellegrini che nel 2018 hanno visitato la Terra Santa, secondo i dati forniti dalla Custodia di Terra Santa che registra i gruppi che partecipano alle Messe e alle liturgie nei luoghi di culto cattolici: una cifra importante, quasi il doppio delle presenze rispetto al 2016 quando, per motivi di sicurezza si era registrato un forte calo di arrivi a causa degli scontri a Gaza e della guerra in Siria. Ma è un dato parziale perché non tiene conto dei visitatori che non prenotano le celebrazioni nei santuari gestiti dalla Custodia. E poi non ci sono solo i cattolici. Gli ortodossi, anzi, sono forse ancora più numerosi: per loro la Terra Santa è sovente il primo viaggio fuori dal proprio Paese.
«Dite alla vostra gente, ai giovani di venire in Terra Santa. La presenza dei pellegrini per le nostre comunità è vitale, ne va della nostra stessa sopravvivenza. La vicinanza anche fisica dei nostri fratelli nella fede ci sostiene, così non ci sentiamo abbandonati: la vostra visita nelle nostre chiese, nelle nostre scuole, nelle nostre case è un segno importantissimo per noi e per il mondo. Più arrivano pellegrini più si diffonde la preghiera per la pace necessaria per questa terra».
Sono parole di mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, vescovo ausiliare e vicario patriarcale per Gerusalemme e Palestina: lo abbiamo incontrato martedì 5 febbraio scorso nella sede del Patriarcato latino di Gerusalemme con i partecipanti al viaggio per le «guide bibliche» promosso dall’Opera diocesana pellegrinaggi torinese (www.odpt.it/) e coordinato dal presidente don Massimiliano Arzaroli. Il vicario ha accolto i pellegrini piemontesi a nome di mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, che proprio in quelle ore era ad Abu Dhabi per partecipare alla storica visita di papa Francesco negli Emirati Arabi. Mons. Marcuzzo, classe 1945 di San Polo di Piave, da 59 anni vive in Terra Santa dove si è trasferito giovanissimo seminarista per terminare gli studi sacerdotali e della lingua araba. Sacerdote dal 1969, nel 1993 è stato eletto vescovo titolare di Emmaus da Giovanni Paolo II.
Eccellenza, perché i pellegrinaggi sono così indispensabili per le comunità della Terra Santa?
I nostri cristiani non sono convertiti ma sono i discendenti diretti della prima comunità cristiana. Per questo motivo la nostra comunità interessa ai pellegrini, perché è la vostra Chiesa madre, è la culla della nostra fede. E questo riconoscerci come ‘madre’ della cristianità per noi è di grande consolazione perché la nostra è una comunità che soffre, che lotta per la sopravvivenza ogni giorno soprattutto in Palestina, a Betlemme, a Nazareth dove vive il 33% delle nostre famiglie. E quando dico sopravvivenza intendo non solo quella della fede cristiana: i pellegrini e il turismo portano ricchezza, sostengono centinaia di famiglie. L’anno scorso, quando dopo la decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele sono ripresi gli scontri nei Territori palestinesi, i pellegrinaggi si sono interrotti e la nostra gente che vive di turismo religioso ha patito la fame, non aveva i mezzi per curarsi: in Palestina non esiste l’assistenza medica pubblica.

Il vostro Patriarcato come accompagna i cristiani che vivono tra Gerusalemme e i Territori occupati?
Il Patriarcato Latino di Gerusalemme, organizzato in sei vicariati con 66 parrocchie, estende la sua giurisdizione sui fedeli cattolici di rito latino residenti in Israele, Palestina, Giordania e Cipro. Noi cristiani siamo una piccola comunità pari al 2 per cento della popolazione, circa 430 mila persone di cui 250 mila in Giordania, 130 mila in Israele e 50 mila in Palestina. Nonostante il cristianesimo sia nato qui, siamo un’esile minoranza: molta della nostra gente avrebbe vita molto più facile se si dichiarasse musulmana ma non lo fa. La nostra è una comunità attaccata saldamente alla propria fede, nascono vocazioni nonostante le barriere che ogni giorno dobbiamo superare per portare avanti la nostra pastorale. Qui non siamo certo in pericolo di vita come i cristiani in Siria ma anche solo gli spostamenti fuori dai territori israeliani sono complicati. Nei giorni scorsi, per esempio, qui a Gerusalemme era in programma un ritiro per i sacerdoti del Patriarcato: numerosi religiosi che vivono in Giordania o a Betlemme e Ramallah in Palestina non hanno potuto raggiungerci per via dei controlli serrati della polizia israeliana. Così, in una situazione dove per i cristiani il quotidiano diventa sempre più critico, il nostro ruolo è quello di convincere soprattutto le nuove generazioni a rimanere: molti giovani vorrebbero emigrare in Europa o negli Stati Uniti ma noi cerchiamo di far capire loro che la sopravvivenza della comunità cristiana in Terra Santa è nelle loro mani. E La Terra Santa appartiene a tutti i cristiani non possiamo abbandonare le sorgenti della nostra fede.
Per questo i pellegrinaggi sono importanti…
Esattamente. Coloro che durante i pellegrinaggi visitano le nostre comunità, parlano con i nostri giovani, una volta tornati nel loro Paesi, nelle loro parrocchie non si dimenticano di noi, ci sostengono spiritualmente e materialmente, raccontano le nostre fatiche a mantenere viva la memoria dei luoghi dove è nato, morto e risorto Gesù. La nostra gente è molto riconoscente alla Chiesa italiana che, con l’8 per mille, fa miracoli per le nostre comunità permettendo, ad esempio, di mantenere in piedi le nostre scuole. Con le congregazioni religiose del Patriarcato ne gestiamo 66 (dalla materna alle superiori) in Israele, Palestina e Giordania e sono riconosciute come le migliori per qualità dell’insegnamento e sbocchi professionali anche dai musulmani che sono la maggioranza della popolazione. Capita spesso che i datori di lavoro richiedano giovani cristiani formati nei nostri istituti piuttosto che allievi diplomati nelle scuole statali. Tenere aperte le nostre scuole è molto oneroso perché non abbiamo finanziamenti pubblici ma è essenziale non solo per il servizio educativo che si offre alla popolazione ma soprattutto per preservare la nostra fede e giustificare la nostra presenza.

Che significato riveste per il vostro Patriarcato la visita di papa Francesco negli Emirati Arabi?
La Messa ad Abu Dhabi, a cui ha partecipato anche il nostro amministratore apostolico, è stato un gesto senza precedenti di fraternità universale ufficializzato dal documento ‘sulla fratellanza umana per la pace mondiale della convivenza comune’ firmato da papa Francesco e dal grande imam Al-Tayyeb. La risonanza che ha avuto il viaggio di Francesco nel mondo arabo e in Medio Oriente farà bene anche a noi perché legittima la nostra presenza e la conferma, incoraggia la nostra gente e i nostri giovani a non partire, rinvigorisce il dialogo con la comunità musulmana nel Patriarcato che è di collaborazione soprattutto sui temi sociali. La nostra speranza è che questo viaggio contribuisca anche a distendere il clima internazionale che nelle ultime settimane, con l‘inasprirsi della storica frattura tra Israele e Iran e con l’annuncio di Trump di voler retrocedere dal trattato sulle armi nucleari con la Russia, ci ha riportati drammaticamente indietro nella storia. Non abbiamo bisogno di altri muri, aiutateci ad abbatterli. È il grido che sale dalla nostra gente.