Franco Leoni Lautizi ha ottant’anni, due occhi che conservano un’aria vagamente impaurita, insieme all’indomito brillio dei ragazzi coraggiosi. E di coraggio il piccolo Franco ha dato prova anzitempo. Aveva meno di 6 anni quando nel 1944, a Marzabotto, le SS fecero terra bruciata della sua vita e dei suoi affetti. Non ha mai dimenticato la terribile strage cui i suoi occhi innocenti hanno dovuto assistere, prima di averne contezza, prima d’averne la forza: «Ogni tanto avrei desiderio di cancellare tutto dalla mia testa, come dai telefonini. Ho provato tante volte a trovare quel bottone, ma non ci sono mai riuscito».
A cavallo tra il settembre e l’ottobre del 1944, l’Italia è letteralmente divisa in due: il Nord in mano a Mussolini e ai nazisti; Il Sud e il Centro si stanno progressivamente liberando con l’aiuto degli Alleati. Due Paesi si fronteggiano, divisi da una guerra ideologica molto forte. I tedeschi tracciano quella che passerà alla storia come «linea gotica», per cercare di fermare l’avanzata. Marzabotto è prossima allo squarcio operato sul ventre dello Stivale, sulla strada che unisce Firenze a Bologna. Le truppe tedesche cominciano a «bonificare», come amano dire, tutte le strade utili, per coprire un’eventuale ritirata verso Bologna e utilizzano tutta una serie di divisioni delle SS, usate anche in Toscana nell’eccidio di Sant’Anna (agosto 1944): la tecnica è sempre la stessa, la strage, l’annientamento assoluto e senza esclusione di colpi, di civili, donne, bambini, anziani.
Quella di Marzabotto, sull’Appennino bolognese, è la strage più grave, per numero e conseguenze. Un eccidio riassunto da una cifra fredda, laconica, glaciale: quasi 800 vittime, il 29 settembre 1944. Così, da anni Franco Leoni incontra i giovani per portare la sua testimonianza di pace. Lo ha fatto anche pochi giorni fa all’Arsenale della Pace di Torino, in un incontro promosso dal Sermig in occasione della Giornata nazionale delle vittime civili di guerra. «Sul sacrario di Marzabotto», ha esordito Leoni, «c’è un muro con le foto di tutti i martiri, i bambini, le donne, gli anziani: 775 persone. Tra loro c’è anche mia madre…». Si commuove. Tace per alcuni secondi. Si scusa. Tra quelle fotografie, dice, «qualcuno manca: don Ubaldo Marchionni, ad esempio, che si è fatto uccidere sull’altare mentre diceva messa. E don Fornasini, a cui è stata tagliata la testa per aver difeso i suoi parrocchiani». Poi inabissa sé stesso e l’uditorio nel buio della sua memoria: ricorda l’aria umida e terrosa del rifugio in cui usavano nascondersi mentre dal cielo piovevano granate e cannonate. «Un rifugio artigianale, costruito dai maschi di famiglia, in cui si stava in venti, e quasi in apnea. Si stava stretti, appoggiati con la schiena alla parete, con una coperta. Si mangiava quel poco che si aveva».
Ma la sorte, o forse la paura, volle che, mentre era in opera un’azione tedesca, per la madre si compissero i giorni del parto, proprio nella penuria di quel rifugio. Così la nonna decise di portarla via e incamminarsi con lei verso casa. Un’azione ardita che le costò cara. Il piccolo Franco, che viveva in simbiosi con la madre, si aggregò a loro, incosciente di ciò che sarebbe accaduto. «Facemmo duecento metri, in salita, prima di arrivare a casa, in modo tremendo, perché la mamma non stava più in piedi e il bambino voleva uscire. Arrivati sull’aia, vedemmo che la stalla era tutta un fuoco. E anche la casa cominciava ad infiammarsi. Mia nonna, con coraggio, andò dentro, recuperando un lenzuolo, due asciugamani. Poi ci lanciammo verso il rifugio. Qualcosa, però, andò storto: quando facemmo per andare, a circa metà strada, circa cento metri dal promontorio del Ca del Prete, ci videro i tedeschi. Erano sette, otto…».
Gli occhi di Franco Leoni recuperano l’aria spaurita, la voce declina gravemente: «Così iniziarono a mitragliare contro di noi. Una tempesta di proiettili ci fischiava attorno». Racconta di quando la nonna si lanciò con loro in un fosso, pensando di sottrarli al tiro, «ma il fosso era in direzione delle pallottole. Quando vedemmo che, poco distante, oltre la stradina, c’era un pagliaio, decidemmo di buttarci lì dietro, per ripararci, ma non fu una buona idea: mia nonna prese subito una pallottola in fronte e rimase sulla strada. Io e mia mamma invece arrivammo a destinazione». Le brevi interruzioni nel racconto espandono la commozione in sala, sino alle ultime file. E caricano di senso ogni parola del sopravvissuto: «Come ho detto già tante volte, la paglia ripara tante cose, ma non ripara dal piombo. Io mi sono preso tre pallottole, una alla schiena, una alla pancia, una alla coscia sinistra. Mia madre, che era incinta e cercava comunque di ripararmi, nonostante i dolori del fratellino che voleva nascere, si è presa una pallottola proprio lì, nel ventre».
Aneddoti emozionanti e ricordi tragici se intrecciano, sul filo della memoria. Come la fucilazione del padre di Franco Leoni, consegnatosi ai tedeschi per scampare al lutto: «Lo sentivo disperato, sentivo che piangeva, perché avevano ucciso il fratello più grande, il più piccolo, la mamma, la moglie, ed io che stavo per andarmene. Ad un certo punto disse: ‘Non ha più senso la vita, non serve più a niente. Mi faccio prendere’. Infatti, il giorno dopo si fece prendere, lo tennero un paio di giorni per portare le munizioni con Augusto Moschetti, un amico, e poi, sopra il bordo di un piccolo ruscello, quando è stato il momento, li hanno fucilati. Li abbiamo ritrovati un anno dopo, riconosciuti dai vestiti e da alcuni oggetti personali che portavano in tasca».
Il flusso dei ricordi non si arresta, arriva anche ai giorni successivi, tornando a dare un volto al piccolo Francesco, un trovatello adottato che, per sbaglio, si rovesciò una pentola piena di fagioli sui piedi. Parole che, ancora una volta, si stringono in gola e scuotono chi è presente al Sermig: «Lo presero, lo portarono all’ospedale militare con gli americani. Io ero in quel camerone, in un angolo, che piangevo, quando mi si avvicinò una donna che non conoscevo, che non mi era neanche parente. Mi disse: ‘Stai tranquillo, Francesco starà bene, qui sono bravi’. Solo che io, e lo dico con gran vergogna, non stavo piangendo per Francesco, stavo piangendo per i fagioli…».
Anche l’episodio della morte della madre adottiva di Leoni Lautizi, una donna di 56 anni, benestante, che si occupò del piccolo Franco dopo la guerra, è toccante. «In orfanotrofio si presentò una donna minuta, con una voce dolcissima. Non parlava, mi osservò per un po’, poi disse: ‘Ti va di venire a vivere con me, a casa mia?’. Io ero molto scettico. Poi accettai. Mi sembrò di passare da un girone infernale a un angolo di paradiso, però mi pareva tutto falso. Quelli della servitù smisero di chiamarmi Franco e cominciarono a chiamarmi ‘signorino’. Per me era una cosa assurda. Quella donna mi ha dato molto amore, anche se per poco tempo. Aveva una malattia terribile, un tumore, il dottore, al momento della comunicazione, mi disse: ‘Ne avrà ancora per quindici giorni, poi non ci sarà più niente da fare’. E aggiunse: ‘La sua grande ambizione è quella di sentirsi chiamare mamma’. Per me ‘mamma’ era una parola grande, una cosa particolare e unica, ma in quegli ultimi quindici giorni pensai a tutto il bene che lei mi aveva fatto e cercai ogni pretesto per pronunciare quella parola. Lei è morta, con un sorriso, solo per quella parola».