
«Il fascino dei testi e dei monumenti antichi, delle rovine, con il loro alto potenziale evocativo, esercita un’attrazione irresistibile. Sono i custodi del nostro passato». Guarda al passato ma parla con passione all’uomo di oggi Marcel Mathys, classe ’33, l’artista svizzero che vive e lavora ad Auvernier (un paesino di 1.500 anime sul lago di Neuchâtel), ha un rapporto appassionato con la pietra e il metallo, ed è innamorato del Piemonte.
Le sue opere sono esposte nei musei e nelle biblioteche di tutto il mondo, dalla Public Library di New York a quella di Washington, dalla Bibliothèque National de France a Parigi alle biblioteche universitarie di Boston e Yale. Ed è quindi una grande gioia incontrarlo a Torino: davanti alla Chiesa del Santo Volto, sul piazzale arso dal sole e incorniciato dagli uffici della Curia, Mathys sta seguendo con occhio attento l’allestimento della sua retrospettiva. Conosce bene il complesso realizzato nel 2006 dall’architetto svizzero Mario Botta: «Spostate il portale in bronzo più a destra, proprio vicino all’ingresso della Chiesa del Santo Volto. Ecco, qui va bene…».
L’artista è a Torino per due importanti iniziative. Sabato 15 settembre, alle 18, al Centro Congressi Santo Volto (via Val della Torre 3), si inaugura la retrospettiva «Mathys», organizzata dall’Arcidiocesi in collaborazione con la società svizzera AP Art Projets. La mostra presenterà fino al 31 dicembre una sessantina di opere tra marmi e bronzi esemplificativi del percorso creativo dell’artista. Dopo, in occasione del vernissage, il maestro donerà alla Chiesa di Torino un monumentale portale in bronzo intitolato «Le Tétramorphe»: alto oltre tre metri, rappresenta i quattro evangelisti. «Sono rappresentati con i loro rispettivi simboli, che fanno parte dei nostri archetipi. Matteo dall’angelo, che esprime l’incarnazione di Dio. Marco dal leone, che vuol dire passione e Luca dal bue, ovvero il sacrificio e la dedizione. Infine Giovanni: l’aquila significa visione, elevazione». L’esposizione – aperta solo in concomitanza di eventi e incontri organizzati al Centro Congressi Santo Volto – propone soprattutto bassorilievi in bronzo, il materiale che più di ogni altro caratterizza la sua arte.
Dopo aver studiato incisione e pittura, Mathys inizia la sua attività indipendente legata all’incisione e alla lavorazione del bronzo. Nel 1959 si avvicina alla scultura, prima in gesso e cemento, poi due anni più tardi in pietra – soprattutto marmo – e, infine, in bronzo. Nel 1972 Marcel Mathys diviene membro di Réalités Nouvelles di Parigi, dove espone regolarmente per venticinque anni. Nel 1987 il Musée d’Art et d’Histoire di Neuchâtel (Mahn) gli ha dedicato una retrospettiva. Nel 1998 riceve il premio dell’Istituto Neuchâtelois. Illustra inoltre regolarmente la «Revue de Belles-Lettres» e le opere di numerosi autori classici e contemporanei. Le sue incisioni sono presenti alla Biblioteca Nazionale di Berna, che conserva l’insieme delle sue incisioni.
Dalla massa informe del materiale grezzo, Mathys crea le storie e i corpi, lasciando le figure in un evocativo stato di passaggio, di non finito. Quasi un elogio dell’incertezza. Spiega: «Indago il momento esatto in cui la figura emerge dal bronzo, in cui prende vita. Odio la perfezione. E non ho paura dell’errore». E cita Baudelaire, che da critico d’arte non amava le «cose finite» perché, scriveva, si dimentica spesso che «c’è un abisso tra un pezzo fatto e un pezzo finito, e che in generale ciò che è fatto in tutto non è finito del tutto e che una cosa molto finita può non essere per nulla fatta – che il valore di un tocco spirituale, autorevole e ben piazzato è enorme».
E sono tocchi autorevoli e sicuramente ‘ben piazzati’, come direbbe Baudelaire, quelli che Marcel Mathys regala nella mostra ospitata al Centro Congressi Santo Volto. Adagiate su candidi piedistalli bianchi – sullo sfondo la parete tutta vetri progettata dall’architetto Botta a sugellare un piccolo giardino interno – le figure emergono appena, rivelando un frammento, schiene e profili, restando appena accennate in superficie. Alla memoria si richiamano invece altre sue opere, spesso legate a storie dell’antichità, una sua passione. «Sono attratto dalle rovine dell’antichità e da tutto quello che rappresentano», spiega Mathys, dando le ultime indicazioni su come la luce deve accarezzare i lavori esposti.
Il passaggio dalla scultura a tutto tondo, praticato dall’artista fino agli anni ’90 del Novecento, alla realizzazione di rilievi, genera una crescente presenza narrativa le cui origini risalgono all’antichità. Il legame fondamentale tra rilievo e narrativa è stato poi declinato sotto forma di fregi o stele. Numerose opere di Mathys recano, come misteriose reminiscenze, le tracce dei loro antichi predecessori come alcuni elementi di inquadratura o alcuni strati suggeriti che fanno da scrigni per corpi e miti. Attraverso le sue opere, l’artista organizza una storia a volte annunciata nel titolo, ma spesso scomposta e celata nello spazio immaginario. Sono i corpi che contano, spogliati di accessori o di orpelli ad eccezione di rare striature o graffi enigmatici.
Le opere di Marcel Mathys, come spiega bene il catalogo che accompagna la mostra, «ci portano verso un immaginario insospettato e fertile, tra il visibile e l’invisibile. Nutrono la nostra contemplazione, ravvivano i nostri sensi e aprono le nostre menti. Fanno parte di queste immagini inquietanti che, secondo Georges Didi-Huberman, ‘si aprono e si chiudono come i nostri corpi che le guardano. Come le nostre palpebre quando sbattono per vedere meglio, qui o là, affinché l’immagine riservi ancora sorprese. Come il nostro respiro, impercettibilmente sospeso, persino senza fiato, di fronte ad un’immagine che ci commuove. Come il nostro cuore il cui battito accelera quando scopre un’emozione’». Le sculture di Mathys emozionano e offrono un punto di vista esclusivo, che apre a grandi orizzonti.