Migranti, la strada per la vita tra Oulx e Briançon

Testimonianza – La forza della disperazione muove i profughi che ogni sera, prima di tentare il passaggio delle Alpi verso la Francia, bussano al Rifugio Fraternità Massi di Oulx in alta Valle Susa. Qui, per una sera, il mondo degli ultimi entra in contatto con il nostro benessere

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Fino al 2015 le persone in fuga da Paesi in guerra, da persecuzioni politiche e religiose e dalla povertà tentavano di raggiungere l’Europa prevalentemente attraverso il Mediterraneo. Da sei anni a questa parte le cose sono cambiate: in seguito alla guerra in Siria (iniziata nel 2011 e tuttora in atto), alla limitazione delle libertà civili e democratiche in Iran e in Pakistan, alla guerra civile in Iraq fra il 2014 e il 2017, all’invasione turca in Rojava – Kurdistan – nel 2019, al ritorno dei talebani in Afghanistan nell’estate 2021, solo per citare alcuni eventi, la direzione prevalente degli spostamenti di persone in cerca di vita e di libertà si è orientata principalmente sulla cosiddetta «rotta balcanica», che ha come punto di partenza i Paesi dell’area medio-orientale, ma che viene utilizzata oggi anche da chi continua ad arrivare dal Maghreb, che trova sempre più difficoltà ad attraversare il mare.

Il viaggio, per queste persone, ha come meta generalmente l’Inghilterra, la Germania o la Francia. La prima tappa del loro percorso è la Turchia, da dove si imbarcano verso la Grecia, per poi risalire, con ogni mezzo possibile e in parte a piedi, la penisola balcanica, raggiungere Trieste, attraversare la pianura padana e tentare infine il passaggio in Francia, attraverso il valico di Monginevro o il Colle della Scala. Famiglie con bambini, uomini soli, minori, donne che tentano il game (ovvero il passaggio delle frontiere) sono accomunati dal fatto di non avere l’autorizzazione per uscire dal loro Paese, né quella per transitare attraverso i vari Stati o per entrare in quelli nei quali sono diretti. Questo accade a causa di una grave disuguaglianza nei diritti riguardanti la mobilità personale. Le merci non hanno frontiere, le persone sì, specie se sono nate nella parte ‘sbagliata’ del mondo.

Il Rifugio fraternità Massi

Sul confine italo-francese, nel tratto compreso fra Oulx (Italia) e Briançon (Francia), chi tenta il game rischia ogni giorno la vita, specie d’inverno, quando la temperatura scende sotto lo zero e i sentieri si riempiono di neve. Ma chi arriva fino a questo punto è già in viaggio da anni (la durata varia fra i 2 e i 6 anni), ha investito tutto ciò che aveva in questo viaggio e sa che questo è l’ultimo sforzo prima di raggiungere l’obiettivo; quindi a nessun costo si fermerà proprio ora. Per far fronte all’emergenza, nel 2018 è stato aperto ad Oulx il Rifugio fraternità Massi, su iniziativa del sacerdote don Luigi Chiampo. Qui ogni sera vengono accolte in media quaranta persone: ricevono un pasto caldo, possibilità di pernottamento e abbigliamento pesante per proseguire il giorno successivo. Spesso arrivano al rifugio persone in condizioni di salute precarie: piedi gonfi e feriti, scabbia, gravidanze a rischio, neonati. Per loro, si tratta ancora di prendere il pullman da Oulx a Clavière, là dovranno scendere e percorrere a piedi i 20 Km che li separano da Briançon, per evitare il controllo di frontiera al Colle del Monginevro, dove la Paf (Police aux frontières) le respingerebbe in Italia. I numerosi volontari del Rifugio Massi sono affiancati da infermieri e medici di Rainbow for Africa e dagli operatori di Medu (Medici per i diritti umani). Il 1° dicembre scorso è stato inaugurato, a fianco del Rifugio Massi, il nuovo Presidio di Medu.

Il rifugio Fraternità Massi ad Oulx – foto Andrea Pellegrini

La bolla

Quando ho conosciuto il Rifugio Massi di Oulx, nel marzo 2021, ho scoperto l’esistenza di un mondo parallelo. O meglio, ho capito che io, noi qui a Torino, nelle nostre case, con le nostre famiglie, il nostro lavoro, le nostre attività, viviamo in un mondo parallelo, in una sorta di bolla. La vita vera passa da altre parti, fuori dalla bolla; una di queste si trova a pochi Km da Torino (75 per l’esattezza), proprio a Oulx, in Valle di Susa. Questi due mondi paralleli sono fisicamente vicinissimi, eppure sono separati da un abisso. Se ne parla poco, se ne sa poco: la gente comune, la maggior parte delle persone, queste cose, questa realtà non le conoscono. Quando il martedì sera torno a casa, dopo essere stata ad Oulx, mi sembra impossibile che la bolla non scoppi.

I migranti sono l’avanguardia dei loro popoli

Questa affermazione è stata fatta ottant’anni fa dalla politica, filosofa e storica tedesca Hannah Arendt, in un articolo pubblicato nel 1943, dal titolo «We refugees» (Noi profughi). Il contesto storico nel quale la Arendt scriveva era la persecuzione hitleriana degli anni ’30 e ’40: Le sue parole sono attualissime oggi: chi emigra dal proprio Paese è non di rado una persona colta, spesso laureata, che esercitava nel Paese d’origine una professione di riguardo, che ha sogni e desideri, idee politiche, una fede religiosa ben precisa e spesso forte, una propria etica personale, ed è comunque sempre, anche nei casi in cui sia povera e semianalfabeta, portatrice di tradizioni e di cultura. A emigrare non sono quasi mai gli sbandati, gli ignoranti, i poveretti, che non ne hanno né la forza spirituale né i mezzi concreti.

Attraverso i nostri confini transita quindi l’avanguardia degli stranieri, persone per lo più in gamba e intraprendenti, che ne hanno passate di tutti i colori e che hanno resistito, persone sole, gruppi e tante famiglie numerose, unite da legami forti. Forse c’è un po’ di retorica in quello che sto scrivendo, ma per quanta retorica possiate trovare, questa non basterà mai a controbilanciare la retorica della narrazione di massa, che ci arriva dai media, dal comune sentire, dalle istituzioni, che inculcano nella comunità civile l’immagine del migrante invasore, delinquente, sfigato.

Le cinque ragazze afghane alle quali insegno un po’ di italiano, una volta alla settimana, hanno fra i 18 e i 28 anni. Sono fuggite ad agosto dopo la presa di Kabul da parte dei talebani. In ordine decrescente di età, in Afghanistan erano rispettivamente, fino tre mesi fa: attrice di cinema e televisione, dipendente del Ministero dell’Interno ed economista, neolaureata in Scienze motorie, universitaria al secondo anno della Facoltà di Ingegneria spaziale, neodiplomata al liceo. La prima volta che ho incontrato le ragazze, mi è venuto spontaneo pensare che se prendessimo a caso cinque ragazze italiane fra i 18 e i 28 anni, probabilmente almeno una di loro avrebbe un ritardo scolastico di almeno un anno, una sarebbe disoccupata, una farebbe un lavoro che non le piace e soltanto, forse, due su cinque avrebbero trovato un posto adeguato per loro nella società. Ovviamente questa è una provocazione, ma è per spiegarvi come mai l’affermazione di Hannah Arendt continua a risuonarmi nella testa.

Il male oscuro dell’assistenzialismo

Soggetti; non oggetti. Il cosiddetto migrante non è un oggetto di benevolenza. E’ una persona. Io volontario, infermiere, medico, mediatore, educatore non salvo te migrante, non aiuto te migrante. Io incontro te persona, per cercare insieme di risolvere il nostro comune problema: problema di umanità che cerca spazi e modalità di vita dignitosa, sana, realizzata. Senza questo approccio, non c’è aiuto efficace. Faccio un esempio: se a Oulx io raccolgo e immagazzino i vestiti smessi, fuori moda e un po’ rotti e li distribuisco ai migranti che fanno la fila per riceverli, scegliendo a caso nel mucchio qualcosa che ‘gli vada’, compio un atto inumano travestito da carità. Se, invece, a Oulx io raccolgo, seleziono e immagazzino indumenti di qualità che io stessa mi metterei addosso, e se la persona che entra in magazzino per ricevere l’abbigliamento sceglie insieme a me i capi migliori per lei, li prova e li apprezza, ecco: ho compiuto un atto altamente umano, ho dato dignità alla persona che ha preso i vestiti e ho salito insieme a lei un gradino di umanità.

Questo approccio, a mio parere l’unico adeguato, l’ho trovato fortissimo in un altro centro di accoglienza temporanea: il Foyer Shalom di Susa, gestito da due anziane suore francescane missionarie. Nel Foyer Shalom vengono accolte due tipologie di persone: famiglie con bambini, e persone ferite o temporaneamente non in grado di proseguire il cammino, per motivi di salute. Spesso è proprio il Rifugio massi di Oulx ad indirizzarle lì. Il centro si basa sulla cogestione collaborativa degli ospiti con le due suore. Sono gli ospiti a preparare le camere per le famiglie in arrivo, a cucinare, a fare le pulizie, ad accogliere i nuovi ospiti. Il mese scorso c’erano un buddhista, una famiglia islamica e una cristiana..

Suor Annamaria e Suor Edoardina sono entrambe ultraottantenni: tutta la vita si sono dedicate ai figli degli emigranti italiani che lavoravano in Svizzera e che erano costretti a lasciare i loro bambini in istituti, al di qua del confine: gli svizzeri non li volevano, i bambini degli operai italiani. Fu così che sorsero nell’Ottocento molti di questi istituti per bambini che di fatto i genitori avevano, ma invisibili, perché impegnati sessanta ore a settimana oltre confine.. Finché nel lontano 1905 i superiori dell’Ordine francescano missionario ebbero l’idea di aprire un istituto a Ginevra, in modo che i genitori che lavoravano in quella città potessero vedere almeno la domenica i loro figli. Quei bambini adesso sono adulti, genitori e nonni a loro volta. Proprio loro alcuni anni fa hanno proposto alle due suore: «Perché non tornate in Italia, e la stessa cosa che avete fatto per noi non la fate per le famiglie che arrivano in Italia dal Medio Oriente e dall’Africa?»..

Da Hannah Arendt agli emigranti in Svizzera nel XIX e XX secolo, in ogni parte del mondo un filo rosso unisce tutta la Storia, che è storia di spostamenti e di migrazioni. Cambiano i Paesi di partenza e quelli di arrivo; non cambia ciò che anima qualsiasi fenomeno migratorio: la ricerca di una vita migliore.

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