Mons. Fabiano Longoni dal 2013 è alla guida dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei. Nato a Milano nel 1957 e ordinato sacerdote nel 1981, a Venezia, dall’allora Patriarca card. Marco Cè, tra i molti incarichi ha diretto il Master universitario in Gestione etica d’azienda, in partnership con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e la Sda Bocconi di Milano. Lo abbiamo incontrato a Torino, sabato 10 febbraio, a margine del convegno promosso dalla Pastorale sociale e del lavoro della diocesi sul tema «Avviare processi nuovi per l’evangelizzazione nel mondo del lavoro» (servizio a pagina 8) dove è stato invitato ad introdurre i lavori.
Mons. Longoni cosa significa oggi evangelizzare il mondo del lavoro quando il lavoro non c’è e come accade nella nostra città, la disoccupazione giovanile si attesta al 40%?
Credo che per rispondere occorra uscire da una concezione legata all’evangelizzazione intesa come proselitismo. Già Paolo VI, in un famoso discorso che tenne il 4 dicembre del 1971 ai primi sacerdoti italiani incaricati nella Pastorale del lavoro e che viene ricordato come il «Decalogo della Pastorale sociale e del lavoro», diceva, fra l’altro, non «dobbiamo essere colonialisti». Oggi Papa Francesco traduce questo concetto con «non dobbiamo fare proselitismo» che per certi versi è una forma di colonialismo. Il problema della Chiesa oggi non è crescere il numero di fidelizzati, come qualche azienda cerca di fare con le promozioni pubblicitarie. Stare accanto ad un giovane disoccupato significa accompagnarlo verso una soluzione, mostrargli un volto amico e attento alla sua promozione sociale. Questo ho visto fare dalle esperienze torinesi promosse dalla Pastorale sociale locale. Qualora rimanessimo invece legati ad una visione miope della evangelizzazione, da «fidelizzazione del cliente» appunto, sarebbe gravissimo e fallimentare. Questa non è Pastorale sociale e del lavoro e non è neppure evangelizzazione.
E che cos’è l’evangelizzazione?
Molte persone che hanno frequentato il catechismo durante l’infanzia, non hanno più la capacità di cogliere il nesso vitale tra cristianesimo e la loro esperienza di vita. Lo dice bene il priore attuale di Bose, Luciano Manicardi: «Oggi la fede per essere eloquente deve saper orientare l‘umano e dunque essere innestata su di esso. Il cristianesimo cioè deve sapersi riscoprire come arte di vivere e proprio nella sua capacità di ispirare e suscitare vita potrebbe trovare forza ed eloquenza rinnovate». Ecco questa è l’evangelizzazione: se noi ispiriamo vita allora possiamo incrociare la vita reale delle singole persone che è fatta di affetti, lavoro, tempo libero. Perché Cristo così non è più solo «radice», una memoria puramente visuale di immagini o di icone, o della infanzia felice, ma è «la sorgente», è attuale, è il Risorto, è il Vivente. Perché noi non stiamo annunziando un morto, un ricordo, un mito, ma il Vivente nella storia, presente nel lavoro delle persone, nelle loro situazioni di vita.
Gesù Cristo come «sorgente» non solo «radice» della nostra storia…
Recentemente il filosofo francese Rémi Brague ha scritto un articolo che rivede sotto una luce nuova il concetto di radici cristiane dell’Europa, questione su cui abbiamo dibattuto qualche decennio fa in relazione ai fondamenti culturali. Egli afferma che il grave problema oggi è avere interpretato le radici come qualcosa che si trova «sparso» nella nostra cultura a cui fare riferimento ogni tanto. In realtà facendo riferimento ad esso come sorgente, si pone come qualcosa di vivo, di dinamico, di vitale e che è attivo oggi, ora. Perché se alcuni in Europa rivalutano solo le radici cristiane, allora il Cristianesimo rischia di ridursi a una pura azione culturale e possiamo paragonarlo alla religione civile ma che non ha niente a che fare con la fede. Questo è il grande dramma di oggi alle nostre latitudini. Possiamo andare a vedere un bel museo, ammirare le Maternità di Maria, apprezzare le Crocifissioni ma non capire più nulla del loro vero significato. Così, molte volte, nostri ragazzi riducono a vestigia estetiche le opere d’arte cristiane, non suscitano in loro nessuna reazione che faccia nascere il desiderio e la curiosità di esperimentare il messaggio cristiano come provocatorio per loro, presente nelle loro scelte. Le meravigliose opere d’arte cristiane vengono ridotte a cose del passato, che non li toccano, non li riguardano più di tanto. Ecco che se restiamo ancorati al solo concetto di radici, siamo rivolti solo al passato, ma se uniamo a quello di radice la dinamicità della «sorgente» allora siamo ben coscienti di venire dal passato e di andare verso il futuro, che è il tema dei processi di evangelizzazione tanto cari a Papa Francesco..
Quindi pastorale del lavoro è far riscoprire agli uomini e alle donne che Cristo è compagno di vita…
Certamente dobbiamo partire da qui perché questa è la radice di ogni cosa, non solo della pastorale del lavoro. Se noi oggi non abbiamo ben chiaro il fine, rischiamo di fare tutt’altro e cioè di fare proseliti, di accompagnare i lavoratori perché vengano in Chiesa: tutte cose buone, intendiamoci, ma non possiamo più pensare che i numeri qualifichino il cristianesimo. Oggi non è un problema di numeri è un problema di «annuncio qualitativo». Solo così la pastorale del lavoro, ma in generale tutta la pastorale (perché il discorso vale per la famiglia, per i giovani, per gli anziani) diventerà pastorale dello «sviluppo integrale» o «dell’ecologia integrale» come ci indica il IV capitolo della Laudato si’ di Francesco. In quel capitolo ci viene indicato cosa dovrebbe diventare la pastorale del lavoro: lì c’è tutto, una prospettiva di impegno, uno sguardo profetico che ci sfida fin da ora..
E come si declina l’annuncio «qualitativo nella pastorale del lavoro?
Insistendo, laddove siamo chiamati, a promuovere la qualità e la dignità del lavoro che oggi è un grande quesito inevaso dalla politica e quasi assente dal dibattito pubblico: non per niente la 48ª Settimana sociale di Cagliari ha parlato di lavoro libero, partecipativo, creativo e solidale. Questo significa qualificare il lavoro a livello alto perché se il problema è ridotto solo al «dare lavoro» anche le mafie danno lavoro. Anche imprenditori che sfruttano e sono disonesti verso i loro doveri di cittadinanza, evadendo le tasse o sfruttando il lavoro nero, danno lavoro. Ma che lavoro è? E non è necessario andare in Sicilia o a Locri, ormai le mafie sono in tutto il Paese… Il problema della nostra pastorale è insistere perché il lavoro sia di qualità promuovendo buone pratiche come ad esempio i «Cantieri di lavOro» nati da Cagliari dove le buone pratiche: dallo smaltimento corretto dei rifiuti industriali, alla condivisione dei progetti aziendali fra lavoratori e imprenditori (art. 46 della Costituzione) emergono come già presenti, inducendo altri a sperimentarli. Il lavoro qualitativo esiste già. Così anche il non avere paura di fronte alle trasformazioni dell’industria 4.0, cercando di prevenire i problemi non solo di curarli, lo stimolare il sindacato ad essere sindacato di tutti i lavoratori, anche dei giovani che non sono iscritti… Significa impegnarsi nella formazione politica, promuovere reti nel territorio e alleanze generazionali. La pastorale del lavoro così non è più solo la pastorale degli operai o del mondo industriale ma è la pastorale dei lavoratori che scommettono sulla «terzietà dell’azienda» cioè nel concepire l’impresa del presente e del futuro, non solo come conflittuale fra «padroni» e classe operaia , ma come comunità di persone abitata dagli imprenditori e dai lavoratori che operano per il «benessere» (lo sviluppo umano e sociale) e non solo per il «ben avere» (la crescita del Pil) del territorio, insomma per il bene comune.
Guardando all’Italia e alla situazione del Torinese messo in ginocchio dalla crisi – l’ultima azienda in ordine di tempo che minaccia di lasciare la nostra Provincia è l’Embraco che ha annunciato 497 licenziamenti – la «terzietà dell’azienda» sembra essere lontana…
Nella diocesi di Torino la pastorale del lavoro ha fatto scuola in Italia con preti come don Gianni Fornero, don Mario Operti ed ora molto opportunamente il vostro Arcivescovo ha nominato un direttore laico giovane padre di famiglia: è bene che la pastorale dei lavoro ce l’abbiano in mano i giovani perché i giovani cominciano a pensare «oltre», non difendono, non conservano soltanto, ma pensano al futuro e alle nuove generazioni. Si pongono in una nuova prospettiva, difendendo i diritti ma promuovendo i doveri di tutti secondo l’articolo 4 della Costituzione che invito tutti a leggere facendo di esso un faro orientativo su queste questioni. Questo significa dare segni di speranza, guardare al futuro perché i problemi non sono solo risolvibili a nostro vantaggio, nel qui e ora delle situazioni: tutto quello che facciamo non lo facciamo solo per noi stessi ma per le future generazioni. Una prospettiva questa che ad un certo punto della nostra storia nel nostro Paese deve essersi persa se, a favore del consenso politico immediato, accrescendo a dismisura il debito pubblico, con scelte scriteriate e assurde: pensiamo solo alle pensioni d’oro o ai prepensionamenti senza limiti di tempo, ci siamo tutti dimenticati dei bambini (favorendo l’inverno demografico), dei ragazzi e dei giovani. Bisogna invertire la rotta prima che sia troppo tardi. E la Chiesa ha un ruolo centrale per ispirare il cambiamento collaborando con tutti gli uomini di buona volontà credenti o non credenti.