La notizia della sua morte, a 91 anni, all’alba del 6 luglio, causata dalle conseguenze della rottura di un femore, ha fatto immediatamente il giro del mondo. Il segno, evidente, della stima, del prestigio e della popolarità che Ennio Morricone aveva raggiunto nel corso della sua lunga attività, come musicista, compositore e autore di colonne sonore per il cinema. Più di 70 milioni i dischi venduti, tra soundtrack cinematografiche e opere, più di 500 i titoli composti, tre Grammy Award conquistati, tre Golden Globe, sei Bafta, dieci David di Donatello, undici Nastri d’argento, due European Film Awards, un Leone d’oro alla carriera. E, soprattutto, due Oscar: il primo, nel 2007, alla carriera. Il secondo, nel 2016, per le musiche di «The hateful eight» di Quentin Tarantino, il suo più grande sostenitore a Hollywood.
Una grande vitalità artistica, quella di Morricone, «insigne e geniale», come ha ricordato nel suo messaggio di cordoglio alla famiglia il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, «un musicista insieme raffinato e popolare, che ha lasciato un’impronta profonda nella storia musicale del secondo Novecento. Attraverso le sue colonne sonore ha contribuito grandemente a diffondere e rafforzare il prestigio dell’Italia nel mondo». Quando esordì nel cinema con «Il federale» (1961) di Luciano Salce, dopo il diploma al Conservatorio di Santa Cecilia in tromba, composizione, strumentazione, direzione di banda e musica corale, si era già fatto notare per gli arrangiamenti delle canzoni di Gianni Morandi e di «Se telefonando» di Mina. Da lì in poi, sullo schermo, solo un successo dietro all’altro, con Sergio Leone, Gillo Pontecorvo, Pier Paolo Pasolini, ma anche con Brian De Palma, Barry Levinson, Roland Joffé, Terrence Malick. E, soprattutto, Giuseppe Tornatore.
«Con Morricone ci conosciamo talmente bene che, dopo avermi fatto ascoltare un tema musicale, guardandomi lui capisce se mi è piaciuto oppure no, prima ancora che io parli», ci aveva detto qualche anno fa il regista di «Nuovo Cinema Paradiso». «O in sala di registrazione, quando lui mi fa sentire qualche passaggio del brano che si appresta a registrare, se io cerco di dirgli qualcosa, magari suggendogli qualche piccola variazione, appena comincio lui ha già immediatamente afferrato il concetto che volevo esprimergli, non mi fa neanche finire la frase che ha già assimilato la correzione e mi fa ascoltare la nuova versione del brano. E’ un rapporto preziossimo, quello con Morricone, io non potrei rinunciare a una collaborazione così rodata, così feconda, che mi fa sentire compreso. E’ rarissimo per un regista sentirsi compreso. Io, quando lavoro con Ennio, mi sento capito».
Le sue cinque, fallite nominations all’Oscar (nel 1978 per «I giorni del cielo», nel 1986 per «Mission», l’anno successivo per «Gli intoccabili», nel 1991 per «Bugsy» e nel 2000 per «Malena») sono state ricompensate, come detto, dalla prima statuetta vinta nel 2007. Allora, tredici anni fa, lo avevamo intervistato per sentire dalla sua viva voce cosa avesse provato, a 78 anni, alla telefonata del presidente dell’Academy Award che gli annunciava il conferimento dell’Oscar alla carriera. Quella conversazione, ancora oggi (ne ripubblichiamo ampi stralci qui a fianco), rivela compostezza, dignità, pudore e orgoglio. Quegli stessi sentimenti per i quali, all’ultima nota d’addio, Morricone, che nel testamento ha scritto «non voglio disturbare», ha voluto funerali in forma privata.
INTERVISTA AD ENNIO MORRICONE DEL 2007
Morricone, domanda banale ma obbligata: quale emozione ha provato all’annuncio dell’attribuzione dell’Oscar alla carriera?
Un’emozione forte. I numerosi attestati di stima nei miei confronti mi avevano un po’ abituato, lo confesso, a questo genere di emozione. Tra i tanti premi, però, mancava indubbiamente il più importante, e l’annuncio dell’Academy Award ha colmato, diciamo così, questa lacuna. Devo essere sincero, l’Oscar alla carriera mi fa molto piacere, anche perché ormai non ci pensavo più.
Le cinque nominations che lei aveva ricevuto in precedenza, tutte andate a vuoto, le avevano lasciato un po’ d’amarezza?
Mi era spiaciuto soprattutto per la seconda candidatura, quella per il film «Mission». A mio giudizio sia la regia di Roland Joffé, sia le interpretazioni di Robert De Niro e di Jeremy Irons, sia la musica che ho composto io possedevano qualità particolari. Qualità anche morali, oltre che tecniche, che gli oltre 5 mila votanti dell’Academy, in quell’occasione, non colsero sufficientemente.
L’Oscar alla carriera è il coronamento perfetto di 45 anni di attività come compositore per il cinema oppure la soddisfazione più grande, nel suo lavoro, restano gli innumerevoli riscontri di affetto e di stima provenienti in tutti questi anni da critica e pubblico?
Sicuramente il giudizio del pubblico. Poche ore dopo l’annuncio dell’Academy ho ricevuto tantissime telefonate e molti fax di congratulazioni da parte di rappresentanti istituzionali, ma la cosa che mi ha fatto più felice è la partecipazione alla mia gioia della gente comune, di amici e colleghi.
Cosa le ha portato in più, rispetto ai suoi esordi, l’esperienza maturata a fianco di grandi registi internazionali?
Guardi, i grandi registi internazionali, quelli davvero di buon livello, hanno influito, nella mia carriera, come i grandi registi italiani con cui ho lavorato. Gli stranieri non mi hanno portato nulla di più, sono sincero. Ho partecipato come compositore a film diretti da autori italiani bravissimi, di alto profilo: forse è anche per questo che non ho mai voluto trasferirmi a Hollywood, ma la verità è che io sono comodo a casa mia, a Roma, dove sono più che contento di vivere. Per carità, Los Angeles è una città straordinaria, con spazi enormi e strade larghissime, ma tra un’abitazione e l’altra ci sono chilometri e chilometri. No, non mi andava di passare intere giornate in auto per spostarmi da un capo all’altro della città…
Nel ricordo di tutti il nome di Ennio Morricone è legato indissolubilmente ai film di Sergio Leone. Quando ripensa alle pellicole girate insieme, da «Per un pugno di dollari» a «C’era una volta in America», qual è il ricordo che le viene subito in mente?
Quando penso a quei film credo che Sergio Leone abbia profondamente amato la musica che io avevo creato per lui. Il suo giudizio sulle mie partiture, dopo aver sentito insieme le composizioni, era sempre positivo. Evidentemente le riteneva utili per ciò che aveva in mente di fare con il suo cinema, pur non dandomi indicazioni precise e stringenti riusciva a capire che quelle note erano giuste, azzeccate, funzionali. Leone amava e rispettava la musica, anche se non la sapeva leggere.
Questa disponibilità di Leone è stata un vantaggio per la sua creatività…
Sì, non mi ha frenato per niente. Anzi. Mi ha dato la possibilità di sperimentare, anche a sua insaputa, di andare oltre i limiti di un certo linguaggio musicale che doveva essere popolare e a tratti persino popolaresco. Però, fin dagli anni Sessanta, io non pensavo soltanto ai western. I trenta western a cui ho collaborato nel corso della mia carriera rappresentano solo il 7-8 per cento di tutta la mia produzione.
In definitiva, come nasce una colonna sonora?
Non nasce al pianoforte, perché io non compongo al pianoforte e lo uso solo quando sono in crisi o quando devo accelerare la consegna del mio lavoro perché ci sono delle urgenze di produzione. Io lavoro alla scrivania, come qualsiasi altro vero compositore. Una colonna sonora nasce prima di tutto nella mente, pensando al film, e si forma dai colloqui con il regista, cercando di dare vita ad un clima poetico. E’ un equilibrio difficile da raggiungere, perché sta tutto in questo obbligo primario: servire al film mantenendo però una umile ma legittima dignità. Certo, a volte ci sono correzioni decisive anche all’ultimo, mentre si registra, quando un sincrono deve essere spostato di qualche secondo primo o dopo rispetto a quanto preventivato. In ogni caso, se la colonna sonora viene fatta risaltare, nel montaggio di un film, come accade oggi per Tornatore e come accadeva, in passato, per Leone, la bravura di un compositore con le sette note viene valorizzata. Se, al contrario, non si concede spazio alla partitura, disperdendola nei tanti suoni di un film, allora la colonna sonora si trasforma in una cenerentola inutile.