«Ogni giorno mi arrivano messaggi di gente che ha paura, che mi riferisce di uccisioni, di una situazione di pericolo che va aumentando». Padre Gian Franco Testa, braidese, missionario della Consolata, oggi vive in Italia, ma dal 1984 al 1992, negli anni del primo governo dell’attuale presidente Daniel Ortega (eletto dopo gli anni della Giunta di Governo di Ricostruzione nazionale di cui faceva parte e che si era instaurata con la fine della rivoluzione sandinista avvenuta nel ’79) segnato dalla guerriglia perpetrata dei gruppi militari «Contras», ha vissuto in Nicaragua e in questi giorni segue e raccoglie le voci dirette di chi si trova immerso in un clima di violenza che non risparmia, anzi sembra accanirsi nei confronti della Chiesa.
Perché ancora tanta violenza?
A monte, all’origine dell’opposizione al governo di Ortega, ci sono anzitutto questioni economiche, una riforma delle pensioni che ha generato malcontento nella popolazione e che si ripercuote fortemente su un contesto sociale di estrema povertà. Basti pensare che il Nicaragua è il secondo Paese più povero dell’America latina.
Questioni economiche, ma anche politiche…
Certamente, bisogna sapere che Ortega è al suo terzo mandato, una rielezione che viola le leggi della Costituzione e già questo lo rende inviso, è Presidente contro le regole. Inoltre con il tempo, secondo la gente, Ortega avrebbe tradito gli ideali di giustizia, di lotta allo sfruttamento della rivoluzione sandinista e questo lo rende ancora più inaccettabile. Il popolo distingue oggi chi ha vissuto e lottato ‘per’ la rivoluzione e chi continua a vivere ‘della’ rivoluzione.
Ma perché la repressione, gli attacchi anche agli uomini di Chiesa?
La Chiesa in passato è stata molto prudente. Ha sempre tentato la via del dialogo, della prudenza rispetto alla rivoluzione sandinista: il cardinale Obando Bravo, Arcivescovo emerito di Managua, morto il giugno scorso, fu contrario al sandinismo, ma poi, in modo inaspettato, molto amico di Ortega; il Vescovo di Leon, la diocesi in cui vivevo, mons. Barni, rispetto al sandinismo aveva un «appoggio critico». Tutti a cogliere il più possibile le istanze di giustizia, di lotta alla povertà, l’attivismo dei giovani, ma al tempo stesso a valutare criticamente le derive socialiste. Ora la Chiesa non può non stare dalla parte della gente che subisce le violenze, le ingiustizie del governo, non può non essere accanto a chi soffre e questo ovviamente viene visto come un pericolo dal governo di Ortega perché la gente in Nicaragua segue profondamente una Chiesa che si identifica con chi soffre. Il sentimento religioso nel Paese è forte. Quando nei giorni scorsi i giovani per sfuggire alle violenze si erano chiusi nella Chiesa della Divina Misericordia di Managua la gente per quanto era possibile si avvicinava in preghiera alla zona…
Dialogo, difesa degli ultimi, quale futuro prospetta per il Paese?
Il popolo del Nicaragua non è un popolo violento, ma è molto combattivo. Sono già morti in tanti e le pallottole provenivano da una parte sola. Non credo che la gente si arrenderà facilmente ai soprusi. La popolazione non ha timore di contrastare le ingiustizie: è stanca, ma non si arrenderà facilmente. Non si vuole la violenza, ma al tempo stesso nemmeno la sopraffazione di tutti i diritti, della dignità. Lo spirito della rivoluzione di 40 anni fa è ancora vivo.
Lei che ha fondato l’Università del Perdono crede che in un Paese così colpito dalla guerriglia e dalle divisioni sia possibile?
Il perdono è legato alla giustizia e alla verità, è dare una ragione di vita alle persone che sono state oppresse. Non va confuso con la rassegnazione. In un documento della conferenza di Medellin si afferma che i cristiani sono pacifici e non pacifisti. E questo ci ricorda che i cristiani non si sottomettono all’ingiustizia ma sono pronti a sacrificarsi per i valori della vita, della dignità, della verità. Questo cercherà di fare il popolo del Nicaragua: un popolo che sa lottare, che non ha paura di schierarsi e che saprà perdonare…