Non c’è mai stato uno «scandalo australiano-vaticano». Tutta colpa dell’errore di un computer «che ha messo insieme transazioni italiane e transazioni vaticane». E i media, che per mesi hanno banchettato e hanno gettato fango sulla Santa Sede, adesso si guardano bene dal dare la notizia, trasmessa da un comunicato della Sala Stampa vaticana e dell’Autorità antiriciclaggio australiana (Australian Transaction Reports and Analysis Centre-Austrac) che hanno drasticamente ridimensionato le cifre trasferite dalla Santa Sede in Australia e hanno chiuso a ogni speculazione.
L’Austrac aveva comunicato che dalla Santa Sede erano partiti verso l’Australia 2,3 miliardi di dollari australiani, pari a circa un miliardo e mezzo di euro, per operazioni poco chiare. Ma non era così. L’autorità australiana, dopo la verifica chiesta dalla Santa Sede, ha ammesso l’errore di calcolo: 9,5 milioni di dollari australiani (6,5 milioni di euro), distribuiti in 362 bonifici versati in sette anni (2014- 2020), anziché 2,3 miliardi di dollari australiani. Il bollettino del 13 gennaio 2021 informa: «La Santa Sede prende atto dei risultati della verifica richiesta e dell’ingente discrepanza sui dati precedentemente resi noti circa le transazioni effettuate tra il 2014 e il 2020: 9,5 milioni e non 2,3 miliardi di dollari australiani». Tra l’altro – spiega il bollettino – la cifra è dovuta «ad alcuni obblighi contrattuali e all’ordinaria gestione delle proprie risorse». La Santa Sede ribadisce rispetto per le istituzioni australiane e manifesta soddisfazione per la collaborazione tra l’Autorità di sorveglianza e informazione finanziaria (Asif) vaticana e l’Austrac «definita da un protocollo stipulato nel 2014, quando l’autorità antiriciclaggio vaticana si chiamava Aif. Al di là del nuovo nome e della necessità di marcare una discontinuità con la precedente gestione, l’autorità antiriciclaggio vaticana sta costruendo sul lavoro della precedente direzione. «Nell’ultimo anno sono stati siglati quattro protocolli di intesa» che fanno salire a 60 il totale dei protocolli con Unità di informazione finanziaria estere stipulati».
Alcuni dati balzano all’occhio. La cifra di 2,3 miliardi di dollari australiani era chiaramente e assolutamente improbabile, se si considera la mole delle finanze vaticane. A esempio, l’Istituto per le Opere di religione (Ior), la «banca vaticana», dichiara 4,4 miliardi di euro di «asset», l’insieme di beni e soldi, e 5,1 miliardi di euro di patrimonio distribuiti in 15 mila clienti, mentre la Santa Sede funziona con un bilancio annuale di 300 milioni di euro: quale ente italiano di quarta categoria funzionerebbe con 300 miseri milioni di euro all’anno? È molto improbabile che il denaro sia stato usato per corrompere i giudici del caso del cardinale George Pell, ex prefetto della Segreteria dell’economia, tornato in Australia nel 2017 per difendersi da accuse infamanti, sparate con leggerezza e dalle quali è stato pienamente prosciolto. I bonifici partono nel 2014, molto prima dell’istruzione del processo.
L’Austrac informa che sono in corso indagini su «specifici trasferimenti di denaro sospetti dal Vaticano all’Australia» ma ha fiducia nei primi rapporti inoltrati dal Vaticano all’autorità australiana. In particolare la polizia australiana e l’Autorità di sorveglianza e informazione finanziaria vaticana indagano su quattro bonifici arrivati in Australia, due con la firma di mons. Angelo Becciu, allora sostituto della Segreteria di Stato, per 2 milioni di dollari australiani a una azienda di Melbourne.
Visto che la Santa Sede parla di «obblighi contrattuali», si può pensare alla possibilità che quel denaro sia il pagamento per servizi richiesti dalla Segreteria di Stato che, per volontà di Papa Francesco, da un mese ha perso l’autonomia finanziaria.
Colpisce non solo l’entità dell’errore ma anche il fatto che la cifra fu comunicata dall’Austrac al Senato australiano prima di Natale. E sosteneva anche che 117,4 milioni di dollari australiani erano statti spediti dall’Australia in Vaticano. La revisione ha ridimensionato i trasferimenti da 117,4 a ben più modesti 26,6 milioni. Ballerine anche le cifre oscillate sulla stampa: a ottobre 2020 parla di 700 mila dollari australiani; a dicembre il card. Pell parla di 2 milioni di dollari australiani inviati e la definisce «operazione anomala», ma non si sbilancia su un eventuale illecito. A fine 2020 l’Austrac parla di 2,4 miliardi di dollari. Ora tutto è drasticamente ridimensionato.
Pier Giuseppe Accornero