Eccellenza, si aprono per Lei altri due anni a Torino: quali banchi di prova immagina di dover affrontare in questo nuovo biennio?
Non si tratta di cose nuove, ma di consolidare quanto abbiamo fatto negli anni passati. In Diocesi e nelle Unità pastorali dobbiamo dar seguito agli impegni assunti attraverso percorsi condivisi, sui quali è avviato un rinnovamento ancora in atto. Mi riferisco in particolare al riassetto territoriale delle parrocchie: esso comporta il coinvolgimento del clero, delle comunità religiose, dei laici e di ogni altra realtà ecclesiale, per realizzare quella «sinodalità missionaria» che ci sta chiedendo Papa Francesco. Sono obiettivi di ordine spirituale e pastorale, una vera riforma ecclesiale che si stenta ancora ad accogliere e a attuare.
Penso poi ai tre soggetti – i ragazzi e i giovani, la famiglia, i poveri – che abbiamo posto in primo piano nella azione della Diocesi, anche mediante le Assemblee diocesane, le mie Lettere pastorali conseguenti, il Sinodo diocesano dei Giovani. Circa i poveri, l’Agorà del Sociale è un metodo che esige impegno capillare di collaborazione nelle Unità pastorali e nel relativo territorio.
Ripensando al decennio trascorso a Torino, quali vicende le tornano alla mente con più immediatezza?
Due in particolare. Anzitutto la Visita pastorale in 350 parrocchie e 15 comunità etniche, che mi ha permesso di vivere esperienze bellissime, feconde di frutti per me e, spero, anche per il clero e per le comunità. Ho conosciuto l’impegno instancabile dei sacerdoti, dei diaconi e di molti laici che non temono il declino della fede o della partecipazione ecclesiale, ma guardano con speranza alla possibilità, anzi alla necessità di una nuova evangelizzazione, costruita sulla Provvidenza e su un’azione pastorale meno chiusa in se stessa, aperta all’incontro e al dialogo con tutte le realtà religiose e laiche.
La seconda vicenda indelebile è certamente l’Ostensione della Sindone con la visita del Papa, esperienze indimenticabili. Torino ha dato una grande prova di organizzazione e capacità di accoglienza. Papa Francesco è stato accolto con entusiasmo, lanciando temi che devono guidarci.
Quali?
Mondo del lavoro, malati, poveri (giovani carcerati, senza dimora, famiglie prive di lavoro o di casa e gli immigrati e rifugiati), giovani (eravamo nel 150° della nascita di san Giovanni Bosco), dialogo con la Chiesa Valdese. Gli insegnamenti del Papa sono basati sui gesti e sui fatti, prima che sulle parole: hanno colpito profondamente l’animo di tutti.
Spesso i giornali amplificano le sue iniziative sui temi sociali. Difficilmente finisce sui giornali l’azione ordinaria del Vescovo che, come lei ricorda, ha visitato tutte le parrocchie della Diocesi. Quale immagine si è fatto della Chiesa torinese, come la presenterebbe a un forestiero?
Se dovessi presentare Torino, la chiamerei: «Città della Provvidenza». Qui la fiducia incondizionata nell’azione potente di Dio (che ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote) fa sì che nessuno si senta solo e abbandonato, ma venga sostenuto nei suoi diritti umani fondamentali, di giustizia oltre che di carità.
Sì, è vero, i media tendono a far emergere i temi sociali più di quelli religiosi. Ma noi sappiamo bene che la dottrina sociale della Chiesa fa parte della evangelizzazione: non è un di più e neppure un di meno. Attuare il Vangelo alla lettera non è facile, ma dobbiamo pur interrogarci sul fatto che il Vangelo viene oggi disatteso o ignorato, nei suoi risvolti etici e sociali, anche da tanti che lo sentono proclamare nelle chiese.
A cosa si riferisce?
Per la mentalità del nostro tempo il capitolo 25 del Vangelo di Matteo sul Giudizio finale («ero senza cibo e mi avete sfamato, ero forestiero e mi avete ospitato, ero carcerato e mi avete visitato…») è sconvolgente, pare fuori del tempo e della storia: invece esso rappresenta il principio e la guida di una rivoluzione silenziosa che, se accolta, cambierà noi stessi e il mondo.
Le sembra che Torino partecipi a questa rivoluzione?
Direi proprio di sì, in campo sociale la Chiesa torinese ha sempre avuto una presenza feconda di frutti evangelici. Vale l’esempio dei Santi sociali dal Cottolengo a don Bosco, al Murialdo, fino all’azione dei preti operai e delle mille realtà che ancora oggi vediamo all’opera in difesa dei più deboli e dei poveri. Si elevano dalla comunità cristiana forti richiami ai potenti di turno ma anche una miriade di iniziative di apostolato in tutti i campi.
Più in generale, come presenterebbe Torino, la città con la sua grande cintura?
Parlerei di una metropoli ferita, che viene da un grande passato, che è entrata in crisi e che ha la giusta ambizione di tornare grande, per sé e per l’Italia. Una città che non si rassegna al declino ma reagisce con l’intraprendenza del suo sistema economico, industriale e religioso. Il sistema Torino, cui la Diocesi ha offerto l’Agorà del Sociale, consiste nel camminare insieme (si intitolava così la famosa Lettera del Cardinale Pellegrino) e cercare soluzioni nel dialogo, nella collaborazione tra tutte le componenti della società.
Fin dal primo giorno del suo ministero Lei ha cercato di aprire un canale di dialogo privilegiato con il mondo dei giovani, che entrano poco nelle chiese ma pongono alla Chiesa gli interrogativi più grandi. Quale messaggio ne ha ricavato?
Ho tratto l’opinione che la Chiesa del futuro debba parlare meno «dei» giovani e agire maggiormente «con» i giovani. Come ci ricorda spesso il Papa, non dobbiamo avere paura di «uscire» per incontrare i giovani là dove essi vivono; la Chiesa può ben frequentare le movide, i luoghi meno sacri… Dobbiamo sporcarci i piedi e le vesti, camminare nelle strade, anche nei luoghi che ci sembrano disastrati.
Oggi la società appare «adultizzata» e spesso lascia il mondo giovanile ai margini, salvo poi criticarne il linguaggio e lo stile di vita: i giovani sentono la forte necessità che qualcuno li ascolti e non stia sempre e solo a dire loro ciò che devono o non devono fare.
Concretamente cosa vorrebbe?
Tanti giovani (anche impegnati negli oratori e nei gruppi parrocchiali o di associazioni) oggi non frequentano la Messa: ci pongono un problema serio, che non può lasciarci estranei o indifferenti. Dobbiamo però riconoscere che le nostre celebrazioni non danno molto spazio ai giovani, non li fanno sentire tanto in famiglia, protagonisti. Quando i giovani si sentono valorizzati e possono esprimersi con un po’ di libertà, capita che vivano bene e molto a fondo le esperienze della fede. Io ho vissuto il ’68… Ebbene, in quegli anni la Messa dei giovani (la cosiddetta «messa beat») era super partecipata: parliamo di un tempo in cui le parrocchie erano per il resto piuttosto chiuse. L’intraprendenza dei giovani rendeva la Messa sentita e vissuta con entusiasmo.
Chiese che si svuotano. Cosa manca all’annuncio del Vangelo?
Le chiese sono meno frequentate. Però le Liturgie, soprattutto quelle domenicali, sono ricche di umanità, di festa e fraternità; molto più che nel passato. Vengono celebrate con cura nei canti e nelle preghiere e nei vari ministri che si alternano sul presbiterio. Se penso alla mia giovinezza, quando a Messa si recitava il rosario e la lingua latina impediva di comprendere la Parola di Dio… se ne è fatta di strada!
È poi vero, comunque, che alcuni aspetti si sono sbiaditi: manca spesso il silenzio adorante del mistero che va ricuperato. In quanto al Vangelo, non possiamo limitarci a buone omelie: bisogna scoprire la bellezza di tradurre il Vangelo nella vita quotidiana, per esempio di accoglierlo in gruppi familiari come usano fare alcune parrocchie nei tempi forti.
A Nairobi, nella nostra parrocchia di Tassia con due sacerdoti di Torino, ci sono oltre 30 gruppi del Vangelo nelle case, guidati dai laici stessi catechisti: qui il Vangelo è anche occasione di conoscenza e incontro, sostegno a più poveri. Le Chiese missionarie sperimentano la Chiesa del futuro, mentre noi sembriamo spesso preoccupati di conservare il passato, la Chiesa del «si è sempre fatto così» e guai a cambiare.
L’altro grande interlocutore con il quale Lei si è posto in dialogo è il mondo del lavoro, fiaccato dalla crisi. Ha denunciato il problema di due città parallele a Torino, quella visibile e benestante, quella sommersa ed emarginata. In dieci anni lo scenario torinese le sembra migliorato o peggiorato?
Mi sembra purtroppo che la situazione sia rimasta stabile per alcuni, sia peggiorata per altri, difficilmente sia migliorata. Le periferie continuano a soffrire, anche se qualcosa si sta muovendo, si sta cercando di farle sentire meno abbandonate a se stesse. Come ho detto non mancano iniziative per il rilancio, non mancano imprenditori creativi, vivaci, ma purtroppo in città continuiamo a percepire più rassegnazione che intraprendenza. Preoccupano la mancanza di lavoro per i giovani, le crisi aziendali che non si arrestano, la sempre più ampia denatalità: tutte cose che pesano enormemente sul futuro della città e del territorio.
Il suo messaggio, di fronte ai problemi, è sempre lo stesso: che le persone non si limitino a denunciare i problemi ma si attivino direttamente a rispondere. Quando chiede che siano le parrocchie ad aprire le porte ai migranti o ai senza tetto, non teme di caricarle di responsabilità eccessive?
La denuncia è una via facile, sembra utile, ma può lasciare le cose come stanno senza indicare soluzioni. Io sono convinto che, di fronte ai problemi, quello che conta non sono le lamentele, ma il rimboccarsi le maniche e agire concretamente: magari faremo poco, però quel poco trascinerà altri a fare altrettanto.
Nella Visita pastorale ho conosciuto molte parrocchie che hanno ricavato spazi per l’accoglienza. Ovviamente non mi sogno di biasimare, tanto meno di giudicare chi non ha potuto farlo. Ma non dobbiamo stancarci di cercare soluzioni. Forse ci sono parrocchie che potrebbero unire le forze nell’ambito delle Unità pastorali e creare posti di accoglienza gestiti insieme. L’accoglienza, quando è possibile, offre una grande testimonianza. Io stesso ho ritenuto di trasformare la mia casa e l’episcopio in casa dei poveri, sia per l’emergenza freddo dei senza dimora che per l’accoglienza dei rifugiati e migranti.
Secondo alcuni, il dibattito sul «riassetto» della Diocesi – che vede diminuire i preti e deve immaginare nuove forme di corresponsabilità ecclesiale – non ha portato rilevanti cambiamenti. Le parrocchie sono tante, i preti pochi e carichi di incombenze. Cosa ne pensa?
Ne ho già fatto cenno. Il riassetto non vuole essere un nuova organizzazione delle parrocchie sul territorio, ma l’avvio di un processo di sinodalità missionaria. Circa 100 parrocchie oggi condividono il parroco con altre comunità; alcuni sacerdoti reggono 3, 4, addirittura 6 comunità… Occorre che queste comunità imparino a camminare insieme aiutandosi l’un l’altra, e che i laici assumano impegni sul piano della formazione, dei servizi pastorali, della missionarietà sul territorio. Se poi si moltiplicassero le equipe di preti che abitano insieme, come avviene già in alcune località, e gestiscono gruppi di parrocchie, allora il riassetto farebbe fruttuosi passi avanti. Parte integrante del riassetto è la formazione di laici responsabili attraverso la Scuola di formazione per laici «Sfop»: queste persone ricevono dal Vescovo uno specifico mandato ad animare e coordinare la pastorale nelle parrocchie prive di un sacerdote residente.
Negli oltre cinquant’anni da prete e 28 da vescovo ha conosciuto diversi Pontefici: come ha vissuto il passaggio dall’uno all’altro nel guidare la Chiesa?
Ho avuto la fortuna di vivere il mio sacerdozio con una serie di Papi Santi o in via di Santità che mi hanno offerto un insegnamento ricco di fede e di forte testimonianza di servizio ecclesiale e al mondo intero.
Da san Giovanni XXIII, il Papa del Concilio, che ha accompagnato la mia giovinezza e i miei primi anni di sacerdozio con il suo coraggio e la sua semplicità insieme. A san Paolo VI, che conobbi personalmente nella Sede Cei quando ero addetto all’Ufficio Catechistico nazionale, e ricordo che gli si poteva parlare con facilità, senza timore reverenziale, e con familiarità.
A Giovanni Paolo I che non ho incontrato da Papa, ma l’avevo conosciuto bene quando era patriarca di Venezia e mi invitava a presentare i catechismi della Cei. A San Giovanni Paolo II che mi nominò suo ausiliare e vicegerente di Roma: ho avuto modo di pregare nella sua cappella e di fare pranzo insieme molte volte; è il Papa con cui ho avuto più rapporti, a volte estesi ai miei genitori, e da cui ho tratto le indicazioni più preziose per il mio episcopato. A Benedetto XVI che mi accolse nella visita ad Limina, e mi intrattenne per un colloquio personale nel quale percepii simpatia e benevolenza.
Oggi viviamo il tempo di Papa Francesco. Come ho ricordato, ho avuto la grazia di ospitarlo per due giorni nell’episcopio di Torino durante la visita del 2015. Giornate che hanno lasciato il segno. Ho sperimentato che ogni Papa, per dono dello Spirito, ha le sue preziose virtù umane, spirituali e scelte pastorali, e tutti operano in continuità con i predecessori nella prospettiva, come leggiamo nel Vangelo, di trarre dal tesoro cose nuove e cose antiche.
La mania dei media, ma anche di alcuni ecclesiastici e fedeli che tendono a contrapporre un Papa all’altro, è un esercizio privo di fondamento e purtroppo anche fonte di pettegolezzi e dicerie che provengono da valutazione solo umane e ben poco di fede e amore alla Chiesa.
Lo Spirito che guida la Chiesa sceglie il Papa proprio dei tempi e lo sostiene perché abbia il coraggio di rinnovarla con il suo Magistero e soprattutto l’esempio di vita. Per cui ogni buon cristiano sa accoglierne la persona, il Magistero e gli orientamenti che offre all’intero popolo di Dio senza giudizi o riserve, in spirito di filiale obbedienza e affetto.
In giugno Lei ci «mandò in vacanza» con una presa di posizione molto decisa contro le politiche di respingimento dei migranti. Oggi la politica nazionale sta virando. Ha percezione che i richiami alla carità attecchiscano nell’opinione degli italiani?
Il Popolo italiano ha una lunga tradizione di accoglienza e di carità, Torino in modo speciale. La voce del Papa e della Chiesa, alla lunga, fa breccia nel cuore della gente. Resta la complessità dell’emergenza dei migranti che fuggono da situazioni di miseria e di violenza: esso esige strategie internazionali per affrontare i problemi dei paesi d’origine; a casa nostra non può fermarsi alle risposte d’emergenza, occorre promuovere la dignità delle persone con percorsi di inclusione sociale, formazione e ricerca del lavoro, in una prospettiva di autonomia.
Italia in prima linea, Europa assente?
È evidente che solo un accordo politico tra tutti gli Stati Europei potrà portare a risposte efficaci. Noi comunque non possiamo tirarci indietro. Non dobbiamo mai dimenticare il Vangelo: in questo caso va accolto sine glossa cioè senza troppi distinguo e obiezioni, confidando in quella divina Provvidenza cui ci hanno educato i Santi sociali torinesi .