Pubblichiamo l’intervento che l’Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia ha tenuto mercoledì 17 marzo in occasione delle celebrazioni per i 160 anni dell’Unità d’Italia presso il Museo del Risorgimento a Torino.
L’Unità d’Italia che celebriamo oggi coincide con un altro anniversario importante e sentito: i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri. Consideriamo tutti il grande poeta come un «padre della patria», ed è una realtà su cui merita riflettere. Perché ci dice che non è solo dal territorio, da un potere centrale che sopravanza gli altri che nasce la patria italiana. Non è da un re conquistatore o da un politico, che si giunge all’unità nazionale. L’unità nostra si forma a partire da una lingua, e da un poeta. Una lingua che non era riconosciuta, che non aveva dignità; e un poeta che ha vissuto gran parte della vita come esule, lontano da quella sola città che sentiva sua. Il paradosso e le sofferenze di Dante hanno segnato la forma stessa dell’Italia, nel corso della sua storia.
Le divisioni e i conflitti che troviamo nella biografia di Dante spingono me, cittadino italiano e credente, a una constatazione precisa, forse quasi ovvia: sono le persone, sono i cittadini che «fanno» la patria, che ne costituiscono il cuore e l’obiettivo. Non la potenza e la sopraffazione su altri Paesi, non l’affermazione di un’ideologia su un’altra; non la colonizzazione di territori e popoli lontani. Ma sì invece il riconoscersi tutti come cittadini. Questo sta scritto nella nostra Costituzione del 1948: «L’Italia ripudia la guerra…».
Io credo che la vera forza dello Stato unitario si sia costruita non tanto e non solo nell’uniformarsi di istituzioni e poteri quanto nel fatto che i cittadini stessi hanno capito l’importanza di mettersi a servizio gli uni degli altri, superando le vecchie divisioni. Voglio dire questo: oltre ai politici e ai militari, ai sovrani e alle infrastrutture, l’Italia si è costruita sullo slancio e sulla generosità della gente comune. Scuole e ospedali, assistenza ai più bisognosi, attività educative sono nate «dal basso», quando e dove c’era bisogno, grazie allo sforzo volontario di chi si guardava intorno, vedeva le emergenze e considerava i propri vicini come parte della sua stessa comunità.
Oggi questo mondo è ancora, e ancor più, un pilastro del nostro vivere associato. Il volontariato, in tutte le sue forme e le sue ispirazioni, rappresenta un patrimonio di cui non potremmo fare a meno, si tratti di protezione civile, assistenza nelle emergenze ma anche investimenti educativi e formativi sui giovani. Quando ripercorro, e non solo con l’occhio dell’uomo di Chiesa, la nostra storia comune, trovo continuamente queste presenze fortissime e discrete. Nella storia di questa mia città mi imbatto ad ogni passo in quella generazione di «santi sociali» che non per caso fiorisce proprio negli stessi anni in cui si completa il processo unitario.
Nei libri di storia apprendiamo il processo unitario come susseguirsi di battaglie, movimenti di piazza e scontri di potere. Tutto vero. Ma a me piacerebbe anche ricordare che siamo nati dal genio di un poeta esule, e dal coraggio di chi ha saputo essere generoso col suo prossimo.
Questa è l’Italia di chi sa guardare oltre i propri compiti e i propri diritti, l’Italia di chi non ha paura di correre ad aiutare il suo prossimo. Oggi, giustamente, cerchiamo strade nuove di rilancio economico in vista di un più completo e più giusto benessere. Ma non dovremmo dimenticare mai che il primo, forse l’unico «investimento» essenziale è quello che dobbiamo compiere su noi stessi e sulla comunità di cui facciamo, profondamente, parte.
+ Cesare NOSIGLIA, Arcivescovo di Torino