La necessità di aprire le porte di casa «a chi è venuto a bussarci da altre aree del mondo fuggendo da conflitti, carestie, miserie e persecuzioni»; il bisogno di chiedere scusa «per tutti i morti della Prima guerra mondiale a cui non è mai stata data una risposta per il loro sacrificio»; l’esigenza di trovare nel silenzio e nella natura «una dimensione contemplativa stimolata dalla profondità della Parola di Dio». Sono solo alcune delle preziose ‘eredità’ lasciateci da Ermanno Olmi, scomparso lo scorso 7 maggio a 86 anni di età. Piccole, sagge, ammirevoli testimonianze di un uomo di fede, spirito libero ma saldamente ancorato al Vangelo, e di un uomo di cinema, regista di oltre venti film in carriera tra corti, documentari, produzioni televisive e lungometraggi (tra cui gli ultimi «Il villaggio di cartone», 2011, «Torneranno i prati», 2014, «Vedete, sono uno di voi», 2017, a cui sono riferite le frasi riportate poco sopra). Un cinema, quello di Olmi, inteso come luogo privilegiato per comunicare agli spettatori sensibilità sociale e tensione spirituale.
Un intellettuale senza snobismi ed esibizionismi, un cantore delle cose semplici, lontano dalle sovrastrutture artificiali della modernità: nella poetica del regista bergamasco sono rintracciabili, in egual misura, attenzione agli ultimi e recupero della memoria, sguardo intimista e tradizioni rurali. Fin dai tempi dei primi lavori, i quaranta documentari a carattere industriale girati tra il 1953 e il 1961 per la Edison, per la quale lavorava, Olmi rivela una spiccata matrice umanista. Un interesse verso ogni sforzo e sacrifico quotidiano, finalizzato all’armonia individuale e collettiva, che verrà riverberato in tutta la filmografia successiva. I protagonisti sono non-eroi, gente comune colta nelle proprie azioni giornaliere, di piccola o grande responsabilità: due giovani alle prese con il loro primo impiego («Il posto», 1961, che lo colloca sotto i riflettori della Mostra di Venezia), una coppia costretta a rivedere i propri sentimenti per un trasferimento lavorativo da Nord a Sud («I fidanzati», 1963). Con «E venne un uomo» (1965), biografia in immagini del «Papa buono» attraverso la lettura del diario spirituale, dall’infanzia a Sotto il Monte all’elezione al soglio pontificio, Olmi racconta il ‘suo’ Papa Giovanni XXIII, con personalità e senza concessioni agiografiche. E con «L’albero degli zoccoli» (1978), Palma d’oro al Festival di Cannes, affresco contadino di fine Ottocento in dialetto bergamasco e con attori non professionisti, porta sullo schermo le storie dei suoi nonni.
Attento ai bisogni morali di ogni comunità, proteso ad una dimensione etica dell’esistenza, Olmi si è fatto portavoce di una religiosità viva, accesa, talvolta critica ma sempre mossa da una ricerca sincera del mistero della vita. Non è un caso che «La leggenda del santo bevitore» (1988, Leone d’oro alla Mostra di Venezia, basato sul racconto di Joseph Roth e unico film insieme a «Il segreto del bosco vecchio», 1993, tratto da Buzzati, di ispirazione letteraria) sia la storia di un clochard alcolizzato di Parigi illuminato dalla Grazia. E non è un caso che la seconda fase della carriera di Ermanno Olmi (ricca di riconoscimenti nazionali e internazionali), dopo la grave malattia che l’ha colpito nei primi anni Ottanta, sia contrassegnata da un’accentuazione ancora maggiore del senso di perdita e riconquista di fiducia, in se stesso e in Dio.
Immagini potenti, lampi di luce e sussulti dell’anima, esistenze sospese tra Cielo e terra: «Il mestiere delle armi» (2001, in concorso a Cannes e vincitore di nove David di Donatello), ritratto folgorante di Giovanni delle bande nere, soldato di ventura al servizio dello Stato pontificio nella prima metà del XVI secolo; «Cantando dietro ai paraventi» (2003), storia di una piratessa cinese ambientata alla fine del 1700, riflessione allegorica contro ogni guerra e sulla grandezza del perdono; «Centochiodi» (2007), girato sulle rive del Po, in cui lo smarrimento del rapporto con l’Assoluto è rappresentato dalla ‘crocifissione’ dei testi antichi di una biblioteca e da una frase, «tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico», che si fa palese, salutare provocazione.
La stessa, necessaria provocazione di un crocefisso che, insieme a tutti gli arredi sacri, ne «Il villaggio di cartone» viene calato a terra da sopra l’altare di una chiesa e portato via, a simboleggiare nell’anziano parroco protagonista del film una crisi identitaria che trova nei clandestini entrati nella casa di Gesù con panche e cartoni il superamento dei propri dubbi interiori. Fino all’ultimo lavoro, l’omaggio in immagini di Olmi all’amico di lunga data Carlo Maria Martini in «Vedete, sono uno di voi»: suggestioni spirituali e di umana intimità, limpidi slanci ideali e vibranti tensioni morali, la consapevolezza che senza giustizia non c’è libertà, l’autenticità di una testimonianza di adesione cristiana capace di diventare punto di riferimento per credenti e non credenti. Uno spirito profetico che ha saputo farsi interrogare dalla realtà storica, interpretandola alla luce del Vangelo.