Un’estate torrida con tanta afa e siccità. Il termometro segna 36-37 gradi ottant’anni fa quando il fascismo si suicida. Benito Mussolini è defenestrato dal Gran Consiglio del fascismo, è esautorato da re Vittorio Emanuele III e sostituito dall’astigiano di Grazzano maresciallo Pietro Badoglio. La notte più lunga della dittatura comincia alle 5 del pomeriggio di sabato 24 luglio a Palazzo Venezia di Roma e, di fatto, si conclude meno di due anni dopo a piazzale Loreto a Milano il 29 aprile 1945 con i cadaveri di Benito Mussolini, Claretta Petacci, Nicola Bombacci, Alessandro Pavolini e Achille Starace impiccati a testa in giù.
L’Italia sconfitta su tutti i fronti
Le sconfitte nei Balcani, in Africa e in Russia rivelano l’inconsistenza e l’impreparazione dell’Esercito, la retorica sulla quale il regime aveva costruito la propria immagine. Scrive Giorgio Bocca in «Fratelli coltelli»: «Ci sono solo due modi per uscire da una dittatura: una sconfitta militare o una crisi economica». La prima inizia in Africa nell’ottobre 1942 a El Alamein con la battaglia fra la VIII armata britannica del generale Bernard Law Montgomery e le divisioni italo-tedesche comandate da Johannes Erwin Eugen Rommel. «Più che uno scontro è un bombardamento schiacciante. Una tempesta improvvisa e totale piomba sul nostro schieramento. Rommel tenta l’ultimo disperato contrattacco, manda al massacro i suoi “Panzer” e i carri armati della “Littorio”». Il 4 novembre 1942 il collasso.
Nel gennaio 1942 si consuma l’altra disfatta, quella in Russia. I resti dell’Armir sfondano la sacca dell’Armata Rossa. Mussolini, i fascisti e i generali non hanno il coraggio di annunciare il disastro totale.
Nel febbraio 1943 una svolta: Mussolini licenzia 9 ministri su 12. Cadono le teste di Galeazzo Ciano, genero del duce, Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Guido Buffarini Guidi, l’inventore delle immonde leggi anti-razziste, Alessandro Pavolini. È l’estremo e disperato tentativo di invertire una rotta ormai segnata o l’ultima illusione di scaricare su alcuni gerarchi le proprie responsabilità.
Nel marzo 1943 scioperano gli operai Fiat a Torino: «È la fine – sentenzia Bocca – del lungo silenzio operaio e il ritorno dell’antifascismo. L’Italia è a pezzi, bombardata ogni giorno da centinaia di aerei senza che ci sia la minima reazione».
Con la caduta di Tunisi il 13 maggio 1943, per la Germania è essenziale controllare la Penisola, bastione esterno del Reich. L’11 giugno gli Alleati prendono la roccaforte di Pantelleria: ridotta a un cratere fumante, cade senza quasi opporre resistenza. La prossima mossa è invadere una delle tre isole più grandi: Sicilia, Sardegna, Corsica. Nella notte del 9-10 luglio 1943 ben 2.800 navi con 160 mila soldati appaiono davanti alle coste della Sicilia. All’offensiva degli Alleati la resistenza si squaglia ad Augusta, la piazza più fortificata, e gli italiani si arrendono senza combattere.
Gli italiani non ne possono più
Si sgretola il fronte interno sotto le incessanti bombe. La fame e la stanchezza, la crescente mancanza di generi di prima necessità e di materie prime demoralizzano la popolazione che vuole la fine della guerra e la denuncia dell’alleanza con la Germania. Mussolini è ancora persuaso che la sorte si può ribaltare. All’incontro tra Hitler e Mussolini a Klessheim il 29 aprile 1943 la pressante richiesta di rinforzi è rifiutata dalla Wehrmacht, che non si fida più di Roma. E c’è molta incertezza sulla salute del dittatore: depresso e malato, dopo mesi di forti dolori addominali, soffre di gastrite e duodenite nervosa. Si cerca disperatamente una via d’uscita. Un memorandum inglese afferma: Vittorio Emanuele III «è invecchiato, privo di iniziativa, terrorizzato dall’idea che la fine del fascismo avrebbe aperto un periodo di anarchia incontrollabile e il suo erede Umberto è incapace di passare all’azione». I contadini rifiutano di portare il grano all’ammasso; le città del Sud sono abbandonate: ci vorrebbero 13 mila camion per rifornirle. La razione quotidiana di pane scende a 150 grammi.
Il 24 giugno Mussolini tiene l’ultima concione, il «discorso del bagnasciuga»: promette che la sola parte d’Italia che gli Alleati avrebbero occupato come cadaveri è «sulla linea del bagnasciuga» e confonde la «battigia» della spiaggia con il «bagnasciuga» la linea di galleggiamento della nave.
Il 19 luglio all’incontro di Feltre fra Mussolini e Hitler nella villa del senatore Achille Gaggia la delegazione tedesca è zeppa di generali che vogliono occupare l’Italia centro-settentrionale. Le prime due ore sono occupate dal consueto monologo-sproloquio di Hitler, che incolpa gli italiani di fiacco impegno militare. Mussolini non profferisce parola. Entra un collaboratore italiano e racconta che gli Alleati bombardano Roma. Dopo pranzo Mussolini interrompe l’incontro perché è senza forze e torna a Roma pilotando l’aereo personale dal quale vede i quartieri orientali di Roma che bruciano.
Giorni di agguati, tradimenti e vendette
Dino Grandi è uno dei gerarchi del regime fascista, stretto collaboratore di Mussolini da più di vent’anni. Più un conservatore di destra che un fascista, vede il fascismo come un fenomeno effimero che dura quanto la vita di Mussolini. Esperto diplomatico, è stato ambasciatore nel Regno Unito – ha molti amici a Londra -, ministro degli Esteri e nemico della Germania. Prima del 25 luglio Grandi comunica al re l’ambizioso piano di eliminare Mussolini e difendere l’Italia dai tedeschi. Vittorio Emanuele risponde che si sarebbe mosso solo dopo un voto del Parlamento o del Gran Consiglio del fascismo e alla fine dell’udienza chiese a Grandi di accelerare: «Si fidi del suo re». Il 19 giugno 1943 l’ultima riunione del governo. Vittorio Cini, ministro delle Comunicazioni e uno dei più potenti industriali, attacca frontalmente Mussolini: è ormai tempo di cercare una via d’uscita.
Una postilla della convocazione del Gran Consiglio prescrive l’abbigliamento: «Divisa fascista, sahariana nera, pantaloni corti grigioverdi: VINCERE». Non esiste un verbale ufficiale dell’assemblea.
«I pini, le rovine, i palazzi barocchi – narra Bocca – sono nella calura. Il 24 luglio 1943 molta gente è fuori». Il bollettino militare 1.155 – altrettanti giorni di guerra – dice che «in Sicilia l’aumentata pressione delle forze corazzate nemiche ha reso necessario lo sgombero di Palermo». Nelle campagne e nelle vallate invase dagli sfollati gli italiani pensano ai fatti loro.
Alle 17:00 del 24 luglio 1943 i 28 membri, in uniforme fascista, si siedono attorno al massiccio tavolo a forma di U nella «Stanza del pappagallo» di Palazzo Venezia. Mussolini siede su un’alta sedia e sul tavolo c’è un drappo rosso con i fasci. Parla per primo: «Ora il problema si pone: guerra o pace? Resa a discrezione o resistenza a oltranza? L’Inghilterra non fa la guerra al fascismo ma all’Italia e vuole occuparla. Siamo legati ai patti: “Pacta sunt servanda”».
Grandi espone il suo ordine del giorno: «È necessario il ripristino immediato di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento compiti e responsabilità stabilite dalle leggi statutarie. Il capo del governo dovrà pregare il re di assumere l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono». Mussolini risponde impassibile che non ha nessuna intenzione di rinunciare al comando militare. Il dibattito si protrae fino alle 23. Chiamati per appello nominale i consiglieri votano:
19 voti a favore dell’o.d.g. di Grandi: quadrumviri Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon; Dino Grandi presidente della Camera; ministri Alfredo De Marsico, Giacomo Acerbo, Carlo Pareschi, Tullio Cianetti; sottosegretari Giuseppe Bastianini, Umberto Albini; presidenti Luigi Federzoni (Accademia d’Italia), Giovanni Balella (Confederazione industriali), Luciano Gottardi (Confederazione lavoratori industria), Annio Bignardi (Confederazione lavoratori agricoltura); poi Giuseppe Bottai, Dino Alfieri, Galeazzo Ciano.
8 voti contrari: Carlo Scorza (segretario del Partito fascista); i ministri Carlo Alberto Biggini e Gaetano Polverelli; i presidenti Antonino Tringali Casanuova (Tribunale speciale), Ettore Frattari (Confederazione agricoltori); Enzo Galbiati (capo di Stato maggiore della Milizia), Roberto Farinacci, Guido Buffarini Guidi.
1 astenuto: Giacomo Suardo, presidente del Senato.
Mussolini arrestato. L’Italia impazzisce di gioia
Alle 2:40 di domenica 25 luglio la seduta è sciolta. Mussolini alle 17 si reca a Villa Savoia per un colloquio di 20 minuti con il re: gli comunica la sostituzione da capo del governo con Badoglio e, all’uscita, lo fa arrestare perché «ha portato il popolo italiano nella Seconda guerra mondiale, si è alleato con la Germania nazista ed è responsabile della disfatta in Russia».
I Carabinieri, al comando del capitano Paolo Vigneri, lo arrestano «per sottrarlo alle violenze della folla». Vigneri prese per un braccio Mussolini, lo arresta e lo carica su un’ambulanza militare, per non destare sospetti. Lo portano alla Caserma Podgora di Trastevere e poi alla caserma Scuola allievi carabinieri e il 27 luglio nel carcere dell’isola di Ponza.
Per tutto il 25 luglio strettissimo silenzio. Alle 22:45 l’Eiar interrompe le trasmissioni radiofoniche per annunciare le dimissioni di Mussolini e la nomina di Badoglio».
L’Italia impazziste per la gioia.
Pier Giuseppe Accornero