Ottant’anni fa gli scioperi antifascisti a Torino

Marzo 1943 – Tra il 5 e il 17 marzo 1943 le fabbriche torinesi sono bloccate da una protesta che coinvolge 100 mila operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni hanno un chiaro scopo politico: la fine della guerra e il crollo del fascismo

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Il 10 marzo 1943, ottant’anni fa, «l’Unità», il giornale clandestino di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, uscì con il titolo: «Sciopero di 100 mila operai torinesi. In tutto il Paese si segua il loro esempio per conquistare il pane, la pace e la libertà». Tra il 5 e il 17 marzo 1943 le fabbriche torinesi sono bloccate da una protesta che coinvolge 100 mila operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni hanno un chiaro scopo politico: la fine della guerra e il crollo del fascismo. Un’ondata che da Torino si estende alle principali fabbriche del Nord, soprattutto nel «triangolo industriale» Genova-Torino-Milano.

Lo sciopero investe Fiat Mirafiori, Officine Rasetti, Microtecnica. Agli operai si uniscono i tranvieri torinesi. C’erano già stati scioperi nell’estate 1942. Dal marzo 1943 la protesta si  amplia. Alle 10 suona la sirena dell’allarme antiaereo. È il segnale di inizio delle agitazioni. I lavoratori che chiedono l’indennità di sfollamento e l’aumento del salario e del razionamento. Il 1° marzo uno sciopero alla Fiat Mirafiori fallisce e la protesta non si allarga. Il 5 a Mirafiori la direzione ordina di non azionare la sirena, ma alcuni reparti si fermano ugualmente. Lo sciopero interessa anche le Officine Rasetti e si propaga. Scatta la repressione: i fascisti arrestano 850 operai. Ma l’apertura del padronato alle principali rivendicazioni fa riprendere il lavoro il 18 marzo. Da Torino gli scioperi si estendono in Piemonte e nelle principali città del Nord. Questi scioperi favoriscono la fine alla guerra (armistizio dell’8 settembre) e danno una spallata al fascismo, che cadrà nel luglio 1943.

Vent’anni prima, nel 1925, con il «patto di Palazzo Vidoni» e l’inizio della dittatura fascista, Mussolini abolisce il diritto allo sciopero, poi vietato dal Codice penale del 1930 detto «Codice Rocco». Le cause iniziali sono la scarsità di generi alimentari e i prezzi troppo alti: dal 1939 il costo della vita è raddoppiato a causa della guerra e nel 1943 ci sono molti licenziamenti. I partiti clandestini antifascisti assumono un ruolo fondamentale. In testa il Partito comunista: all’inizio del 1943 solo 100-200 operai su 21 mila della Fiat hanno la tessera segreta del Pci. Un ruolo fondamentale svolgono la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, il Partito socialista di Pietro Nenni e il Partito d’Azione di Ugo La Malfa, da poco costituito. Nelle prime settimane del 1943 si avvia a Milano l’embrione del Comitato di liberazione nazionale, fondato ufficialmente il 9 settembre 1943. Poi i comitati regionali e provinciali.

L’avvento del fascismo dopo la Grande Guerra è facilitato da un clima di sfiducia; dai disordini con scioperi, gazzarre e boicottaggi; da un governo che manca di maggioranza e di stabilità politica: quello presieduto dal pinerolese Luigi Facta, dura solo 91 giorni (1º agosto-31 ottobre 1922) travolto dalla «marcia su Roma». Benito Mussolini è un ex maestro fallito e radiato e un ex socialista: «L’Osservatore Romano» lo chiama sempre «cavalier Benito Mussolini». Dalla «marcia su Roma» dell’ottobre 1922 gli squadristi tornano «con i fiori nei moschetti». Una delle prime preoccupazioni dei fascisti è riformare la legge elettorale. Lo fanno con la 2444 del 18 novembre 1923, nota come «Legge Acerbo», dal nome del deputato fascista Giacomo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che redige il testo: introduce un premio di maggioranza al sistema proporzionale. La legge è voluta da Mussolini per assicurare una maggioranza stabile al Partito fascista. Il 21 luglio 1923 il disegno di legge è approvato dalla Camera con 223 sì e 123 no. Il primo banco di prova sono le elezioni politiche del 6 aprile 1924, ultime multi-partitiche: con la dittatura fascista sul voto cala il sipario per vent’anni. Alla lista più votata sono assegnati i 2/3 dei seggi; i rimanenti vanno alle altre liste in proporzione ai voti. I fascisti prendono 374 seggi su 535; i popolari di don Luigi Sturzo 39, un risultato più che decoroso; i socialisti unitari di Giacomo Matteotti 24 e i socialisti 22 – già allora la sinistra si divideva e cento anni dopo non ha perso il vizio -; i comunisti 19 e i liberali 15.

Il 30 maggio 1924 i parlamentari di minoranza protestano per il voto in alcune circoscrizioni. Gli onorevoli Labriola, Matteotti e Presutti chiedono l’invio degli atti alla Giunta per le elezioni di Montecitorio. Nel celebre discorso contro i brogli scandisce il deputato socialista Matteotti: «Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso». Così Matteotti decreta la propria condanna a morte: è rapito e assassinato da una squadraccia capeggiata da Amerigo Dumini. Nel giorno del suo omicidio, 10 giugno 1923, era previsto un suo nuovo discorso alla Camera in cui avrebbe rivelato le sue scoperte sullo scandalo finanziario che coinvolgeva Arnaldo Mussolini, fratello del duce. Il corpo di Matteotti è ritrovato dopo due mesi.

Per la dittatura il 1923 rappresenta l’inizio della strada in discesa. Quell’anno il dèspota istituisce il Gran Consiglio, una sorta di super-governo; nel 1925 la dittatura è cosa fatta; nel 1926 abolisce tutte le libertà: stampa (censura), personali, riunione, sciopero, cultura: per i fascisti «la libertà è ciò che non è»; nel 1927 nasce la «Carta  del lavoro»; nel 1939 il duce fonda la Camera dei fasci e delle corporazioni. Per la difesa del Partito fascista c’è il servizio segreto Ovra, presente in tutto il Paese. Furoreggia la moda fascista: stivaloni di cuoio, calzoni alla zuava, camicia nera, giaccone di orbace nera un tessuto di lana grezza della Sardegna, sciarpa littoria, cinturone, fez. Maestri e allievi hanno l’obbligo di portare la divisa. Ci saranno anche «l’oro alla Patria» e l’autarchica campagna del grano: «Facciamo da soli».

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