«Pace e bene a tutti» era il saluto augurale che padre Mariano rivolgeva – all’inizio e alla fine di ogni trasmissione – dalla televisione ai 15-17 milioni di telespettatori che ogni martedì seguivano, con commosso interesse, il suo programma religioso. Alto, robusto, barba fluente, sguardo penetrante, sorriso aperto, padre Mariano – morto cinquant’anni fa, il 27 marzo 1972, venerabile dal 2008 – si fa frate in età matura.
Tra i santi torinesi nessuno è sbocciato così vicino alla Consolata. Paolo Roasenda — suo nome da civile — nasce alle 9,20 del 22 maggio 1906 in piazza Giulio 3 ter, poi piazza Emanuele Filiberto, qualche decina di metri dal santuario: «Sono nato a Torino, la città del SS. Sacramento e della Consolata, di don Bosco e del Cottolengo. Se il Signore, come spero, mi accoglierà in Paradiso, sono certo che sarà la Consolata a colmare di delizioso stupore la mia anima». Il ragazzo frequenta il circolo dell’Immacolata dei Gesuiti ai Santi Martiri. «Senza quelle lezioni mi sarei, come tanti, smarrito». Sotto la guida del celebre professore Gaetano De Sanctis, nel 1927 a 21 anni, si laurea in Lettere all’Università di Torino e vince il concorso per il liceo di Tolmino (oggi Slovenia), poi Pinerolo (Torino), Alatri (Frosinone), infine al «Mamiani» di Roma. Per 13 anni (1928-1940) insegna latino e greco; pubblica studi di critica letteraria e di storia cristiana antica, commedie e biografie di giovani.
Si fidanza, ma la ragazza lo molla: «Non tardai a convincermi che quel giovane aveva la vita segnata, che non era quella del matrimonio. Avevo la sensazione che fosse tutto di Dio, e Dio gli bastava; non aveva quindi bisogno d’una donna».
Tra i religiosi conosciuti, «i Cappuccini non mi sono affatto simpatici». A 34 anni nel 1940 lascia tutto entra nel noviziato dei Cappuccioni di Fiuggi. Prende nome Mariano «per onorare colei cui tanto devo». La vita cappuccina – dice – «semplifica tante cose: fare a meno del rasoio, delle calze, del cappello! Ero perfettamente a mio agio». Noviziato, teologia, prete il 29 luglio 1945: «Ho il privilegio e la gioia ineffabile di celebrare la Messa». Comunica alla zia Costanza: «L’animo mio è ripieno di tanta soavissima gioia e grido dal fondo dell’anima l’inno della mia riconoscenza al Signore». Il 10 marzo 1954 dice in una conversazione alla radio: «La domestica dei miei nonni mi vedeva spesso, ancora adolescente, in biblioteca, a curiosare tra i libri. Mi diceva: “Bravo, figliolo! Studia, diventerai un grande scienziato!” Ottima donna! Oggi sono assai più che un grande scienziato; sono, per dono dei Signore, suo sacerdote». Cappellano nel carcere «Regina coeli» e negli ospedali «Santa Maria della pietà» e «Santo Spirito in Sassia». Gli affidano conversazioni religiose alla Radio vaticana e alla Radio italiana.
Nel 1955, scelto tra una ventina di candidati, inizia «l’avventura televisiva». Scrive a una suora: «Chiedo una preghiera: si inizia a Roma la televisione. Per la parte religiosa i superiori hanno fatto il mio nome. Ci sono 20 e più candidati». Uomo di profonda cultura non posa da dotto o da intellettuale; è semplice come un fanciullo, accessibile a tutti, uomo alla mano, pronto alla battuta e allo scherzo, schietto e spontaneo. Si prepara seriamente ma non vuole dare l’impressione di recitare. Attinge dalla preghiera la serenità che distribuisce a piene mani: «È indispensabile credere nel primato della preghiera, parlare cioè a Dio per gli uomini, più che parlare agli uomini di Dio». Nel 1962 appunta: «La preghiera deve essere la mia prima occupazione. Sono ogni giorno più convinto che conta solo la santità». In gioventù era rimasto colpito da una frase di Pio XI: «Nell’ora triste, a nessuno è lecito essere mediocre». E in tutta la vita è nemico della mediocrità. A fondamento della vita spirituale mette l’umiltà: «Stiamo quotidianamente uniti a Gesù, che viva e trionfi nei nostri cuori ora per ora, minuto per minuto, bruciando tutta la scoria del nostro egoismo. Tutto quanto siamo e abbiamo è dono gratuito di Dio: non ci deve nulla, noi gli dobbiamo tutto».
Non cede al brivido del successo e non si monta la testa. È convinto di essere uno strumento mosso dalla grazia divina: «Gesù non ha bisogno di me per fare del bene. Gesù non ha bisogno di noi, ma solo del nostro amore». Nel 1971 scrive: «Non è che il Cristianesimo abbia fatto il suo tempo; è che non abbiamo ancora creduto all’amore. Sempre più mi convinco che i nostri guai, piccoli e grandi, vengono da qui: non credere abbastanza al suo amore». Già nel 1952 esortava: «Facciamoci santi! È il più prezioso apostolato. E la Chiesa ha bisogno di santi più che di operai e apostoli. Non manchiamo all’appuntamento della felicità». Dall’Azione Cattolica impara la forza della testimonianza. Nel 1939 confida a zia Costanza: «Possiamo parlare continuamente a tutti di Gesù col nostro contegno e col nostro sorriso, riflesso». Aggiunge con matura consapevolezza: «Un superficiale, un chiacchierone, un sentimentale non sarà mai un apostolo. Se si ha Gesù, si dà Gesù». Animato dallo zelo di san Paolo e sollecitato dall’esempio di san Francesco, padre Mariano si dedica alla predicazione del vangelo. Tiene cicli di predicazione e conferenze in molte città, conversazioni alla radio, scrive, soprattutto parla per 17 anni in televisione: «Basta che i1 povero padre Mariano vada in un luogo per una conferenza, e si riempiono i teatri: la televisione è una propaganda incredibile. Quanta gente conosce padre Mariano! Che responsabilità tremenda».
«Grida il Vangelo dai tetti». Prepara accuratamente le trasmissioni. Tale la competenza che dirigenti e tecnici gli lasciano ampia libertà nell’impostare i programmi. È rispettato e apprezzato per la sua competenza professionale, la conoscenza dello strumento, la sensibilità giornalistica, la capacità di dosare i contenuti, la finezza estetica e il gusto musicale. Generalmente l’argomento della «conversazione» gli veniva richiesto dagli ascoltatori. Per molti diventa «uno di famiglia». Una grossa azienda al martedì concede ai dipendenti di uscire un quarto d’ora per ascoltare padre Mariano. Tale e tanta la popolarità che alla direzione della Rai-tv giunge la richiesta, con 50 mila firme, per spostare la sua rubrica in orario più comodo, dopo cena. Aldo Grasso nella monumentale «Storia della televisione italiana» scrive: «La notorietà del frate diventa vero e proprio successo quando approda sul teleschermo. La barba tanto lunga da sembrare finta, gli occhialini neri, l’aspetto energico e il celebre saluto “Pace e bene a tutti” affascinano i telespettatori. Parla di verità profonde con chiarezza e semplicità. Tutti lo capiscono e vedono in lui un consigliere spirituale e un bonario amico». Quando parla non fa la predica ma dona fede e serenità, non è mai noioso. Un suo biografo confida: «Queste cose le ho capite leggendo moltissime lettere dopo la sua morte». Una donna ha appena perso il marito: «Trovo il sollievo nelle sue conversazioni. Quelle sue sante, semplici e grandi parole mi confortavano». Lo ascoltano anche gli atei: «Mio marito è ateo, ma quando alla tv appare padre Mariano lo ascoltiamo con religioso raccoglimento».
Una mamma: «Riunivo i miei tre figli davanti al video quando parlava di Dio. Il suo “pace e bene” è stato per noi un messaggio che ci rasserenava e ci dava la forza di andare avanti». Una ragazza: «lo sono giovane, lui era anziano, ma mi piaceva tanto perché capiva anche le preoccupazioni dei giovani. Ci ha tenuto compagnia in tanti momenti in cui eravamo scoraggiati, stanchi, delusi». Infonde serenità nel cuore della gente, anche gli scettici lo conoscono e ne ammiravano umiltà e cultura. Arriva in ogni famiglia come un amico che non dà soggezione. Per 17 anni le sue rubriche – «Suardi sul mondo; La posta di padre Mariano; In famiglia; Chi è Gesù» – sbancano con 15-17 milioni di telespettatori: «Pace e bene a tutti».