Padre Solalinde a Torino, “non mi arrendo ai narcos”

Ottobre missionario – A colloquio con il coraggioso prete messicano che difende i migranti e sfida i cartelli della droga. È stato incarcerato e mincacciato, sulla testa ha una taglia da un milione di dollari, ma continua a denunciare i crimini orrendi contro gli indocumentados, i sequestri, le fosse comuni

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Padre Solalinde

Un milione di dollari. È la taglia che i narcotrafficanti hanno messo su padre Alejandro Solalinde, «il più importante difensore dei migranti in Messico», come l’ha definito il «Los Angeles Time». Ha fondato Hermanos en el Camino, una casa-rifugio per i migranti diretti negli Stati Uniti. Un avamposto della speranza nella piccola città di Ixtepec, nel sud del Paese, dove ogni anno 20 mila persone trovano accoglienza, protezione, dignità.

Si chiamano indocumentados: uomini, donne e bambini senza documenti che fuggono dal Centroamerica. Non inseguono il sogno americano, sfuggono alla morte. Nel triangolo più violento del mondo – El Salvador, Guatemala e Honduras – hanno solo tre possibilità: accettare le regole dei narcos, morire o fuggire. E fuggono. Ma ad attenderli alla frontiera trovano i narcotrafficanti: l’industria dei sequestri vale oggi 50 milioni di dollari. Chi non ha nome e diritti è una preda perfetta.

Padre Solalinde, 73 anni, candidato al Nobel per la pace nel 2017, racconta la sua storia nel libro «I narcos mi vogliono morto» (Emi, pp. 176, euro 15) e prova a dare una risposta all’inferno degli invisibili ne «Questo è il Regno di Dio» (Emi). Ha presentato i suoi due ultimi lavori a Torino, la settimana scorsa, ospite dei Giovedì dell’Ottobre missionario, organizzati dal Centro missionario diocesano in collaborazione con i Missionari della Consolata, Operazione Mato Grosso, Ufficio per la pastorale dei Migranti e la Focsiv.

«Non voglio parlare di me, io sono solo uno strumento nelle mani di Dio. Preferisco guardare alle ragioni politiche e sociali che causano morte e povertà», ha esordito davanti a una sala gremita, con un intervento molto critico verso un «modello di neoliberismo selvaggio che ha divorato il Messico e l’Occidente tutto», ma anche verso una Chiesa a volte troppo «autoreferenziale, che deve invece aprirsi ai poveri e alle periferie del mondo». Poi ha aggiunto: «La nostra società è in crisi, perché ha tolto dal centro Dio e ha messo il dio-denaro. Bisogna cambiare le relazioni, a cominciare dal nostro quotidiano».

Padre Solalinde l’ha fatto: ai migranti senza documenti, ha restituito nome, speranza, dignità. Ai migranti senza un tetto, ha aperto le porte dei suoi Albergue, sparsi in tutto il Paese. Ma non è sempre stato così, in Messico. Fino al 2005 l’angelo degli invisibili non conosceva molto dei cartelli della droga e del business che girava intorno agli indocumentados. Faceva il parroco, il professore, l’assistente dell’Azione cattolica, studiava psicologia. Un prete «borghese», come si definisce, affascinato da Paolo VI («Ebbe il coraggio di portare avanti il Concilio, nonostante le resistenze») e che oggi vede in Francesco «un profeta, impegnato nella lotta contro la corruzione».

A sessant’anni la scoperta dell’inferno. Racconta padre Solalinde, snocciolando le cifre di una tragedia: «Ho scoperto gli invisibili, mezzo milione di persone che entrano in Messico illegalmente per tentare la strada degli Usa; i rapimenti, 20mila migranti spariti nel nulla prima di raggiungere La Linea, così viene chiamata la frontiera; il viaggio dei migranti sulla Bestia, il treno merci che attraversa il Paese; le fosse comuni con i cadaveri barbaramente torturati; il fiorente e atroce traffico di organi, un rene o un fegato costano dai 100 ai 150mila dollari».

Numeri da bollettino di guerra, la stampa internazionale l’ha ribattezzata «narcoguerra»: un conflitto in piena regola, che ha causato dal 2006 ad oggi circa 250 mila morti, 25 mila l’anno. Ma nessuno sa esattamente quanti migranti riposino – ben nascosti – in terra messicana. Poi arriva la stagione dei maxi sequestri. E padre Solalinde comincia a denunciare. «Alla polizia, accorgendomi presto che era corrotta, e alla stampa. Ma soprattutto ho fatto della strada la mia parrocchia. E la gente mi ha aiutato: per prevenire i sequestri, per liberare persone. In poco tempo abbiamo creato un vasto movimento di consapevolezza e azione».

In poco tempo, padre Solalinde è diventato uno degli uomini più conosciuti in Messico. Ma anche uno dei più minacciati. La svolta nel dicembre 2010: asserragliato nella sua piccola casa-rifugio di Ixtepec, il coraggioso sacerdote resiste a Los Zetas – banda paramilitare che pretendeva la restituzione di quindici indocumentados scappati dal maxi sequestro messo a segno dai narcos – e con una telefonata ai media internazionali fa uscire la vicenda dai confini. Dopo quattro tentati omicidi, oggi vive con la scorta.

Ma si sa, Solalinde non è il tipo che si arrende. E anche oggi ha idee molto chiare sulla situazione politica messicana e americana. L’arrivo di Trump, e della sua tolleranza-zero sui migranti, ha peggiorato le cose? «Il Presidente americano è un acceleratore di un sistema in agonia», risponde. «Ma può essere un’opportunità per i migranti. È un paradosso, lo so. Non voglio essere frainteso. Il suo razzismo sfacciato, la retorica violenta contro gli stranieri, l’ossessione del muro stanno obbligando l’opinione pubblica internazionale, troppo a lungo apatica, a prendere posizione. Non possiamo più far finta di non sentire. Siamo costretti a prendere coscienza. E a lottare per difendere la giustizia».

Ma come fa padre Solalinde, sempre vestito di bianco per non confondersi con i poliziotti, al collo una «croce che abbraccia», a trovare la forza? «La mia storia di uomo e di sacerdote è un lungo corpo a corpo con Dio per scoprirlo e scoprirmi. L’Albergue è la meta di un cammino. Spesso è stato tortuoso, a volte ho girato in tondo. Non mi pento dei tanti passi fatti. Perché ognuno mi ha permesso di addentrarmi un po’ di più nel mistero di me stesso. E del Regno».

La taglia dei narcos, le fa paura? «La affronto con grande pace, perché so che la mia vita non è nelle mani del crimine, né dei politici corrotti, ma di Dio. Poi ricevo molte dimostrazioni di affetto. E solidarietà. L’amore è più forte della paura». Gli indocumentados in Messico lo sanno bene ed è bene ricordarlo: «Il male non avrà l’ultima parola, finché ci sono uomini come padre Solalinde».

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