Papa Francesco il 14 ottobre 2018 proclama santi due grandi amici, il Papa di Roma Paolo VI e l’arcivescovo di San Salvador Oscar Arnulfo Romero, assassinato per la sua strenua difesa dei poveri.
«l rapporti fra i due non hanno nulla di formale» osserva lo storico e docente Roberto Morozzo Della Rocca. L’arcivescovo salvadoregno si affida a Paolo VI e il Papa lo protegge, nonostante le voci malevole che lo accusano di nefandezze: di essere un comunista, un eretico, addirittura un matto. Famiglie dell’oligarchia, esponenti del regime militare – foraggiati dalla Cia americana, che vede comunisti ovunque – e ambienti ecclesiastici avversi a lui e al Concilio lo diffamano perché osa chiedere giustizia sociale e lottare per i poveri. «E lo faceva – dice Morozzo – con un’autorità mai vista in Salvador. Il popolo era affascinato dalla passione pastorale di Romero, dalla sua predicazione veemente, dal suo coraggio profetico».
Vescovo di Santiago de Maria, una diocesi periferica, Romero conosce Paolo VI nel 1975 durante una «visita ad limina». Appena insediato arcivescovo della capitale San Salvador, nel marzo 1977 Romero si scontra con il governo che sta insabbiando l’indagine sull’assassinio del gesuita Rutilio Grande Garsia, parroco che viveva da povero tra poveri. Racconta Morozzo: «La protesta di Romero, in una Messa che radunò presso la Cattedrale di San Salvador centomila fedeli, fu disapprovata dal nunzio mons. Emanuele Gerada che cercava di mantenere buone relazioni con le autorità. Romero si recò a Roma. Paolo VI lo riconobbe all’udienza generale del mercoledì e lo ricevette. Gli diede fraternamente l’incoraggiamento di cui aveva bisogno: “Coraggio, è lei che comanda”».
Un altro significativo incontro avviene il 21 giugno 1978, meno di due mesi prima che Papa Montini muoia a Castel Gandolfo il 6 agosto 1978. Sono momenti difficili: Romero è osteggiato, la Chiesa salvadoregna è perseguitata, alcuni preti sono uccisi. L’arcivescovo deve difendersi dai detrattori che cercano di farlo rimuovere dalla Santa Sede. Romero va a Roma a difendersi e nota: «Il Papa non è stato schematico, ma piuttosto cordiale, ampio, generoso». Montini non entra nel merito delle accuse, ma conforta e sostiene l’arcivescovo.
Lo storico Morozzo scrive sulla rivista «Vita pastorale»: «Nelle omelie di Romero i riferimenti a Paolo VI e ai suoi documenti sono frequenti. Segue ogni passo e discorso di Paolo VI dall’elezione nel 1963, scrivendone e parlandone di continuo. Le vicende personali di Romero sembrano ricalcare, nelle gioie e nelle amarezze, le tre grandi fasi del pontificato di Paolo VI: quella degli entusiasmi conciliari e delle grandi encicliche, come “Populorum progressio” (1967); quella del ripiegamento perle contestazioni; quella del rilancio dell’evangelizzazione fra il 1974 e il 1978, di cui sono simbolo l’Anno Santo del 1975 e la “’Evangelii nuntiandi” del 1977».
L’arcivescovo annota: «Nella voce del Papa c’è un grido di speranza. Siamo in un tempo in cui la Chiesa si rinnova, e non solo con una restaurazione del proprio prestigio esteriore, che non convince nessuno, ma con un rinnovamento fermo e aperto che rende la Chiesa più semplice e più biblica. È il clima di primavera che si respira in questa ora postconciliare». Elogia Montini come «Papa del dialogo, leader della pace del mondo, pellegrino dell’amicizia dei popoli, profeta nuovo dello sviluppo dei popoli e della giustizia sociale, autentico avvocato dei popoli poveri dinanzi all’abuso dei popoli potenti».
Come Montini a Roma, Romero a San Salvador, negli anni Settanta, avverte le crescenti opposizioni al Concilio e la difficoltà di fare sintesi tra vecchio e nuovo; esorta a non dare interpretazioni arbitrarie del Concilio, a non dividere la Chiesa in fazioni; riprende l’invito a proseguire nell’aggiornamento e a impegnarsi nella carità; lo definisce «il grande Papa dell’equilibrio». Nell’esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi» (1975), riassumendo il Sinodo 1974 «L’evangelizzazione nel mondo contemporaneo», Montini parla della «gioia di evangelizzare anche tra le lacrime», e delle comunità di base diffusissime in America Latina. Romero, martire «in odio alla fede» si fa paladino delle montiniane «civiltà dell’amore» – della quale il Papa parla per la prima volta nella Pentecoste 1970 – e di «No alla violenza, sì alla pace», tema della Giornata della pace 1978.
A un giornalista che , nell’agosto 1978, gli chiede se abbraccia la teologia della liberazione, Romero risponde: «Sì, appoggio la teologia della liberazione, quella che promana dal messaggio di Gesù, che viene a togliere il peccato dal mondo». Il mio pensiero teologico è uguale a quello di Paolo VI, definito nella “Evangelii nuntiandi”». È in totale fedeltà al proprio motto episcopale, «Sentire con la Chiesa», scolpito sulla lapide tombale, e in piena sintonia con Paolo VI che considerae padre, maestro e amico.
In America Latina l’arcivescovo martire è venerato come «San Romero de las Américas», che ha accolto il grido del popolo e si è schierato decisamente in difesa dei poveri e degli oppressi, convinto che i valori evangelici vadano incarnati e non solo affermati. «È un vescovo educato dal suo popolo», dice subito dopo la morte nel 1980, il cardinale arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini.
Il poeta Davide Maria Turoldo, religioso servita, gli dedica una poesia: «In nome di Dio vi prego, vi scongiuro, vi ordino: non uccidete! Soldati, gettate le armi…/ Chi ti ricorda ancora, fratello Romero? Ucciso infinite volte / dal loro piombo e dal nostro silenzio. / Ucciso per tutti gli uccisi; neppure uomo, / sacerdozio che tutte le vittime riassumi e consacri. / Ucciso perché fatto popolo: / ucciso perché facevi «cascare le braccia ai poveri armati», più poveri degli stessi uccisi: / per questo ancora e sempre ucciso. / Romero, tu sarai sempre ucciso, e mai ci sarà un / Etiope che supplichi qualcuno ad avere pietà. / Non ci sarà un potente, mai, che abbia pietà / di queste turbe, Signore? nessuno che non venga / ucciso? / Sarà sempre così, Signore?»