«Desidero ricordare in questo momento don Roberto Malgesini, il sacerdote della diocesi di Como che ieri mattina è stato ucciso da una persona bisognosa che lui stesso aiutava, una persona malata di testa. Mi unisco al dolore e alla preghiera dei suoi familiari e della comunità comasca e, come ha detto il suo Vescovo, rendo lode a Dio per la testimonianza, cioè per il martirio, di questo testimone della carità verso i più poveri. Preghiamo in silenzio per don Roberto Malgesini e per tutti i preti, suore, laici, laiche che lavorano con le persone bisognose e scartate dalla società».
Con queste parole Papa Francesco ha concluso la tradizionale catechesi, mercoledì 16 settembre. Il Papa ha unito la sua voce a quelle di tanti che alla notizia dell’omicidio hanno ricordato con commozione la figura del sacerdote, il suo impegno silenzioso per i più poveri, la sua capacità di accogliere e di prendersi cura degli ultimi.
Sul prendersi cura Papa Francesco aveva dedicato la sua catechesi: «Per uscire da una pandemia», aveva esordito, «occorre curarsi e curarci a vicenda. E bisogna sostenere chi si prende cura dei più deboli, dei malati e degli anziani. C’è l’abitudine di lasciare da parte gli anziani, di abbandonarli: è brutto, questo. Queste persone – ben definite dal termine spagnolo “cuidadores”, coloro che si prendono cura degli ammalati – svolgono un ruolo essenziale nella società di oggi, anche se spesso non ricevono il riconoscimento e la rimunerazione che meritano. Il prendersi cura è una regola d’oro del nostro essere umani, e porta con sé salute e speranza. Prendersi cura di chi è ammalato, di chi ha bisogno, di chi è lasciato da parte: questa è una ricchezza umana e anche cristiana».
Un prendersi cura che Papa Francesco ha voluto poi riferire in particolare all’ambiente in cui viviamo a quel creato che ha invitato i fedeli a contemplare.
«Questa cura», ha proseguito, «dobbiamo rivolgerla anche alla nostra casa comune: alla terra e ad ogni creatura. Tutte le forme di vita sono interconnesse, e la nostra salute dipende da quella degli ecosistemi che Dio ha creato e di cui ci ha incaricato di prenderci cura. Abusarne, invece, è un peccato grave che danneggia, che fa male e che fa ammalare Il migliore antidoto contro questo uso improprio della nostra casa comune è la contemplazione. Ma come mai? Non c’è un vaccino per questo, per la cura della casa comune, per non lasciarla da parte? Qual è l’antidoto contro la malattia di non prendersi cura della casa comune? È la contemplazione. «Quando non si impara a fermarsi ad ammirare e apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli». Anche in oggetto di “usa e getta”. Tuttavia, la nostra casa comune, il creato, non è una mera “risorsa”. Le creature hanno un valore in sé stesse e «riflettono, ognuna a suo modo, un raggio dell’infinita sapienza e bontà di Dio».
Questo valore e questo raggio di luce divina va scoperto e, per scoprirlo, abbiamo bisogno di fare silenzio, abbiamo bisogno di ascoltare, abbiamo bisogno di contemplare. Anche la contemplazione guarisce l’anima. Senza contemplazione, è facile cadere in un antropocentrismo squilibrato e superbo, l’“io” al centro di tutto, che sovradimensiona il nostro ruolo di esseri umani, posizionandoci come dominatori assoluti di tutte le altre creature. Una interpretazione distorta dei testi biblici sulla creazione ha contribuito a questo sguardo sbagliato, che porta a sfruttare la terra fino a soffocarla. Sfruttare il creato: questo è il peccato. Crediamo di essere al centro, pretendendo di occupare il posto di Dio e così roviniamo l’armonia del creato, l’armonia del disegno di Dio. Diventiamo predatori, dimenticando la nostra vocazione di custodi della vita. Certo, possiamo e dobbiamo lavorare la terra per vivere e svilupparci. Ma il lavoro non è sinonimo di sfruttamento, ed è sempre accompagnato dalla cura: arare e proteggere, lavorare e prendersi cura… Questa è la nostra missione».