Testimonianza della Dott.ssa Lina Petri
Da parte mia vorrei solo dire qualche ricordo. Mio zio Albino è diventato vescovo quando io avevo due anni. Di quando ero molto piccola ricordo quindi ovviamente poco, ho ben presente però alcune volte che si fermava a casa nostra a Levico, di passaggio per qualche impegno in Trentino. Erano visite improvvise e brevi, ma lasciavano mamma contenta. Io e mio fratello possiamo dire che abbiamo conosciuto in quegli anni lo zio attraverso i racconti della mamma. Ci raccontava della loro infanzia a Canale e in particolare di tanti episodi del duro periodo della guerra e della resistenza. Sono tanti episodi che mi sono rimasti impressi, anche quello che lo zio fece a commento dell’incontro tra Mussolini e Hitler che ebbero a villa Gaggia, tra Feltre e Belluno, nel luglio del 1943. A voce alta davanti altri disse: «Siòn ente man de doi matt. Siamo nelle mani di due pazzi». Nel corso di quegli anni terribili dell’occupazione, dei rastrellamenti, so che lo zio si era adoperato a Belluno anche a nascondere persone in pericolo, ebrei.
Al tempo del Concilio la mamma ci faceva pregare perché «il Signore lo illuminasse». Ogni volta che era a Roma per una sessione, lo zio mandava una cartolina, solo la firma, spesso la frase «un saluto benedicente». Mantenne sempre quest’abitudine, anche negli anni successivi. Ero già grande quando notai che spesso la cartolina era sempre la stessa e raffigurava la basilica di Sant’Antonio in via Merulana: una piccola attenzione verso mia madre che si chiamava Antonia.
Quando avevo 15 anni lo zio mi invitò a trascorrere qualche giorno durante le vacanze di Natale da lui in patriarchio a Venezia. Quei giorni hanno segnato per me l’inizio di un’amicizia. Così, negli anni del liceo e dell’università, dal 1970 al 1978, sono stata tante volte da lui a Venezia. Mi sollecitava ad andare a trovarlo quando volevo. Si informava dei miei problemi, si interessava ai miei studi. Ricordo che all’inizio del liceo mi chiese se mi piaceva di più san Tommaso o sant’Agostino e nel vedermi disorientata in merito, registrava con tristezza un decadimento dell’insegnamento rispetto ai suoi tempi… Mi parlava spesso di sant’Agostino, diceva che lo sentiva più vicino, che per capire le sue opere bisognava conoscere la sua vita e l’esperienza che aveva fatto del peccato e della misericordia di Dio. Quando mi spiegava anche cose profonde diceva i concetti con esempi chiari, come alle udienze generali del mercoledì.
Spesso mi ripeteva che a me lo legava particolarmente l’affetto per mia mamma, che tanto si era sacrificata per lui ed era dovuta emigrare per lavorare. Ma anche lo zio io l’ho sempre conosciuto povero: nel patriarcato di Venezia, al di là degli arredi “storici” non c’era nulla di sfarzoso o di particolare valore. Quando era arrivato a Venezia aveva dovuto arredare le camere degli ospiti, avendo i parenti del patriarca Urbani portato via quello che era proprietà del cardinale. «Voi però – ci diceva – alla mia morte non portate via nulla, anche se sono cose che ho comprato di tasca mia». Anche nel vestire era estremamente sobrio. Succedeva che suor Vincenza qualche volta passasse a mia mamma le sue canottiere di lana, i calzini, le camicie, ormai consunte e rammendate più volte, che poi venivano usate da mio papà, muratore, sul lavoro. Diceva suor Vincenza, la suora che lo ha seguito da Vittorio Veneto a Roma, che era l’unico modo di “far sparire” quella biancheria lisa senza che lo zio reclamasse per continuare ad usarla.
Molte volte andavo a trovarlo da sola. Sempre in quegli anni invitava la mia famiglia (i miei genitori, mio fratello e me) a trascorrere il Natale e la Pasqua con lui. Durante quegli incontri, immancabilmente la mamma esternava tutte le sue preoccupazioni sul brutto momento che si stava vivendo: le proteste del post Sessantotto, il terrorismo, le contestazioni al Papa. E gli diceva: «È tutto un rebaltòn… Albino, sono tanto preoccupata anche per te». Lo zio però si dimostrava sereno, la incoraggiava e le diceva: «Nina stai tranquilla, la Chiesa nei secoli ha superato momenti anche più gravi e difficili perché è il Signore che la guida. Lui c’è sempre». E aggiungeva: «Ciò che è Tradizione nei secoli rimane e ritorna, sempre». Suor Vincenza, mi raccontava che lo zio le diceva: «Le verità della fede le ho imparate da bambino, sono rimaste le stesse, sono sempre le stesse, e non sono cambiate da quando sono diventato prete a ora. Ed è questa Parola di Dio, che è immutabile, che dobbiamo proclamare, non la nostra». Ci diceva di continuare a recitare il Rosario in famiglia, «anche se tutti ora dicono che è una preghiera superata». Ci chiedeva in particolare di pregare per Paolo VI, che soffriva incomprensioni.
In patriarchio ospitava spesso cardinali provenienti da varie parti del mondo. Ricordo un suo scambio di visite con il cardinale Marty di Parigi. Una volta lo zio mi regalò una statuina della Madonna, copia di quella di Notre Dame, avuta in dono dall’arcivescovo di Parigi che era stato da lui il giorno precedente. Aveva ospitato più di una volta a Venezia il cardinale Thiandoum, e mi aveva parlato di quel vescovo africano. Mi diceva che queste visite gli aprivano un orizzonte di più grande respiro. Più di una volta mi disse pure che avrebbe desiderato vivere un’esperienza di missione in Africa e che non gli sarebbe dispiaciuto imitare il cardinal Léger che nel 1968 aveva rinunciato alla sede episcopale di Montréal per servire i lebbrosi in Camerun. Diceva che più avanti pensava di chiederlo anche lui al Papa.
Nell’autunno 1975 passai a salutarlo prima di partire per Roma, matricola all’università e prima che lui partisse per il viaggio in Brasile. Erano i primi giorni di novembre, uno o due giorni dopo l’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Gli telefonò il vescovo di Udine, mons. Alfredo Battisti, per chiedere un consiglio sull’opportunità o meno di celebrarne i funerali religiosi. Le circostanze della morte erano scandalose e a me colpì molto come lo zio valutò la situazione: «La sua condotta di vita lasciamola al giudizio del Signore. Tutti noi, nessuno escluso, abbiamo bisogno della Sua misericordia. Le sue opere artistiche però» diceva «parlavano per lui e d’altra parte, in Friuli, da giovane, era stato attaccato alla pratica cristiana, ed era giusto che tornando adesso alla sua terra, la Chiesa lo accogliesse con la sepoltura cristiana». Mi colpì il suo criterio di valutazione che prima di tutto non condannava, ma salvava il buono e mi aveva colpito questa sua spiegazione limpida, da vero pastore.
Lo incontrai un’ultima volta a Venezia la sera del 5 agosto 1978, io di passaggio verso una vacanza con amici universitari e lui appena rientrato in patriarcato da alcuni giorni trascorsi agli Alberoni, dove si recava sempre in estate per un po’ di riposo. Durante la cena gli raccontai della morte per leucemia di un mio amico universitario. Ricordo il suo volto che mi diceva che bisogna stare sempre pronti, perché la morte può venire in qualunque momento: «L’importante l’é sta semper col Signor» mi aveva detto quella sera, che peraltro era una frase abituale con cui mi salutava sempre nel momento in cui andavo via. Verso la fine della cena di quel 5 agosto lo chiamarono al telefono e tornando mi disse di aver avuto notizia che Paolo VI non stava bene. Rimasi a dormire in patriarcato. Al mattino lo zio mi disse di aver saputo da Roma che era peggiorato. Mi salutò con la raccomandazione di pregare per il Papa. Lo rividi poi nell’udienza ai familiari del 2 settembre e negli incontri ufficiali del giorno dopo. Come semplice fedele ero presente anche alla messa di presa di possesso a San Giovanni in Laterano il 23 settembre. Nel mese di pontificato il comportamento sereno e saggio dello zio era rimasto quello di sempre. Nell’incontro privato con noi familiari, il 2 settembre, ci rassicurò subito dicendo: «Non ho fatto niente per arrivare fin qui. Quindi state tranquilli voi come sto tranquillo io». Del resto questo è stato sempre il suo atteggiamento in sintonia con il suo stile di vita.
Lo rividi infine disteso nel suo letto dopo la morte. Ricordo la sua camera nell’appartamento papale… da dove ero seduta lo guardavo e davanti a me sulla destra – tra le due finestre ad angolo della stanza – la scrivania… c’erano solo un crocifisso e la fotografia dei suoi genitori, i miei nonni materni, con in braccio mia cugina Pia, la loro prima nipotina.
[01293-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Testimonianza di Suor Margherita Marin
Religiosa della Congregazione delle Suore di Maria Bambina, assistente presso l’appartamento papale durante il mese di pontificato di Giovanni Paolo I
Vidi per la prima volta Giovanni Paolo I due giorni dopo l’elezione, insieme alle altre suore della nostra comunità chiamate a svolgere il servizio di assistenza presso l’appartamento pontificio. Fino a quel momento non avevo avuto mai occasione di incontrarlo personalmente. Anche se Luciani era conosciuto da noi, perché fin dai tempi del suo episcopato a Vittorio Veneto aveva presso di sé le suore di Maria Bambina.
Ci accolse con semplicità, senza metterci in soggezione. Ci disse di pregare, che il Signore gli aveva dato un peso, ma che con il Suo aiuto e le nostre preghiere lo avrebbe portato avanti. Sapendo che ero la più giovane delle suore, avevo 37 anni, disse: «Mi spiace di aver portato via qualche suora giovane». Ci trattò da subito con familiarità. Ricordo che il giorno seguente al nostro arrivo mi mandarono insieme al segretario p. Magee a ritirare i paramenti e a chiudere la cappella privata del Papa, quella dove Paolo VI usava celebrare la messa al mattino con i suoi segretari, perché Giovanni Paolo I volle invece che la santa messa del mattino fosse celebrata nella cappellina privata all’interno dell’appartamento e fossimo presenti anche noi suore insieme ai segretari: «Noi siamo una famiglia e celebriamo assieme» disse.
Il giorno della messa solenne per l’inizio di pontificato accolse a pranzo anche le suore che erano state con lui in patriarcato a Venezia. Mostrò sempre molto riguardo verso noi suore. Io mi occupavo in particolare del guardaroba e della sacrestia, ma sbrigavo anche altri servizi quando c’era bisogno. Suor Cecilia era la cuoca, suor Vincenza era infermiera, mentre suor Elena coordinava il nostro lavoro. Suor Vincenza era la più anziana, conosceva il Santo Padre da molti anni, lo aveva conosciuto a Belluno al tempo in cui, giovane prete, ebbe problemi di salute e gli prestò assistenza come infermiera; quando poi divenne vescovo, egli richiese una piccola comunità di suore di Maria Bambina per l’appartamento episcopale e desiderò che ci fosse anche lei ad assisterlo. Suor Vincenza lo seguì anche a Venezia e fu l’unica delle suore che erano con lui a Venezia a venire in Vaticano. Suor Vincenza ci disse che non tanto volentieri aveva accettato di venire, perché si sentiva già anziana, ma che poi si trovava bene. Aveva avuto problemi di salute e il Santo Padre, ricordo, ci disse: «Sapete, suor Vincenza è sofferente di cuore e le ho detto di non camminare tanto e di prendere anche l’ascensore personale se ha bisogno».
Nel corso di quel mese io l’ho veduto sempre tranquillo, sereno, sicuro. Sembrava che avesse fatto da sempre il Papa. Anche nella preghiera si vedeva che era unito al Signore. Sapeva trattare con i suoi collaboratori con molto rispetto, scusandosi per recare disturbo. Non l’ho mai visto avere gesti di impazienza con qualcuno, mai. Infondeva coraggio. Era affabile con tutti.
Si alzava presto al mattino, intorno alle 5.00. Poi andava in cappella a pregare per un’ora e mezza. Stando sempre lì nelle vicinanze, noi suore da fuori lo vedevamo. Pregava sempre da solo, i segretari scendevano più tardi per la messa. La messa si celebrava alle 7.00. Mentre il Santo Padre era nella cappella noi suore recitavamo le lodi nel salottino accanto alla cucina, poi andavamo anche noi in cappella per la messa. Durante la celebrazione non faceva omelie. Ricordo invece che alcune volte, quando in quella giornata doveva celebrare la messa da qualche parte, lasciava il padre Magee celebrare al suo posto, e lui assisteva come semplice chierichetto. Rispettava il digiuno eucaristico, quindi solo dopo la messa faceva colazione. Terminata la colazione s’intratteneva nel suo studio per la lettura dei quotidiani e verso le ore 9.00 scendeva per le udienze. Il pranzo era intorno alle 12.30, poi si ritirava per il riposo pomeridiano. Nel pomeriggio solitamente si fermava in appartamento; studiava, leggeva e passeggiava leggendo. Qualche volta andava anche di sopra nel giardino pensile, poche volte è sceso nei giardini vaticani. Il cardinale Villot una volta gli aveva detto: «Santità, se lei scende nei giardini noi dobbiamo chiudere e non lasciar passare nessuno». «Allora», rispose il Santo Padre, «se dovete chiudere… io rimango qua». E così la maggior parte delle volte rimaneva in casa. Riceveva su sua richiesta alcune persone. Prima della cena recitava i Vespri con i segretari, spesso li recitava in inglese. La cena era verso le 19.30. Noi suore non servivamo a tavola, c’era per questo l’aiutante di camera Angelo Gugel. Diceva poi compieta con loro, e mentre noi eravamo ancora a riordinare il refettorio, veniva a salutarci. Tutte le sere. Ricordo che ci raccomandava sempre le preghiere per i tanti bisogni nel mondo, a me chiedeva sempre qualcosa riguardo alla preparazione della liturgia del giorno seguente; poi ci augurava la buona notte, salutandoci sempre con queste parole: «A domani, suore, se il Signore vuole celebriamo la messa assieme». Si ritirava presto.
L’ultimo giorno fu come gli altri. Al mattino entrò in cappella a pregare alla solita ora ed ha celebrato con noi la santa messa alle sette. Ha fatto normalmente colazione, poi si è fermato un po’ a leggere i quotidiani, quindi è andato giù per le udienze del mattino. Verso le 11.30 è ritornato su in appartamento e ricordo che è venuto in cucina, come spesso faceva, chiedendoci un caffè: «Suore, avete un caffè? Potreste prepararmi un caffè?». Si sedette prese il caffè e andò poi nel suo studio. Pranzò con i segretari e poi si ritirò per il solito riposo pomeridiano. Quel pomeriggio lì rimase sempre in casa, non si mosse mai dall’appartamento e non ricevette nessuno perché ci disse che stava preparando un documento ai vescovi. Io non so però a quali vescovi fosse indirizzato. Lo ricordo bene perché quel pomeriggio io ero a stirare nel guardaroba con la porta aperta e lo vedevo passare avanti e indietro. Camminava nell’appartamento con i fogli in mano che stava leggendo, ogni tanto si fermava per qualche appunto e poi riprendeva a camminare leggendo e, camminando, passava davanti dove mi trovavo io. Ricordo che vedendomi stirare mi disse anche: «Suora, vi faccio lavorare tanto… ma non stia a stirare tanto ben la camicia perché è caldo, sudo e bisogna che le cambi spesso… stiri solo il colletto e i polsi che il resto non si vede mica sa…». Me lo aveva detto in dialetto veneto, come spesso usava con noi.
Dopo cena ricevette la chiamata del cardinale di Milano Giovanni Colombo. Già al mattino avevo sentito il Santo Padre parlare con il padre Magee riguardo a questa telefonata. E dopo cena, il Santo Padre, andò a rispondere al telefono e parlò con il cardinale. Non ricordo esattamente quanto tempo rimase in quella conversazione, forse una mezza ora. Dopo venne da noi, come faceva sempre, per salutarci prima di ritirarsi nel suo studio. Ricordo che mi chiese quale messa gli avessi preparato per il giorno seguente e gli risposi: «Quella degli Angeli». Ci augurò la buona notte con le parole che ogni sera ci ripeteva: «A domani, suore, se il Signore vuole, celebriamo la messa insieme».
Ho impresso ancora nella memoria un particolare di quel momento lì: eravamo tutte assieme nel salottino con la porta aperta, la porta era proprio davanti a quella dello studio privato, e quando, dopo averci già salutato, il Santo Padre è stato sulla porta dello studio, si è girato ancora una volta e ci ha salutato di nuovo, con un gesto della mano, sorridendo… mi sembra di vederlo ancora lì sulla porta. Sereno come sempre. È l’ultima immagine che mi porto di lui.