Parla Brice, l’ivoriano rinato dopo lo sgombero del Moi

Intervista – La storia incoraggiante di Jean Brice, 50 anni, viene dalla Costa d’Avorio, viveva nei sotterranei dei Moi: dal degrado della vita negli scantinati al Lingotto ad un tirocinio lavorativo a Eataly grazie a Comune, Diocesi, Compagnia di San Paolo e Prefettura

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Jean Brice ha 50 anni viene dalla Costa d’Avorio, viveva nei sotterranei del Moi (le palazzine dell’ex villaggio olimpico occupate da profughi e migranti , grazie al progetto che vede l’azione congiunta di Diocesi, Comune di Torino, Città Metropolitana Compagnia di San Paolo, Prefettura per sgomberare la struttura, oggi sta portando avanti con successo un tirocinio lavorativo da Eataly. Una storia di immigrazione e di degrado che si è «ribaltata», un segno di speranza… Lo abbiamo incontrato su una panchina ai Giardini Reali di Torino.

Jean Brice, perché ci racconti proprio qui la tua storia?

La casa è piccola siamo in tre, tutti «sgomberati» dal Moi, tutti accolti in uno degli alloggi che la diocesi ha messo a disposizione del progetto, ma non è solo perché qui siamo più tranquilli a parlare. Qui su questa panchina ho dormito tante notti, bevevo, mi addormentavo qui…non avevo altro, forse come quel ragazzo che ora mentre parliamo è steso  su quella panchina la…

Ma dalla Costa d’Avorio come sei arrivato qui?

La mia storia è lunga…nel mio paese vivevo in condizioni di povertà, volevo andare via per cercare una vita migliore. Sognavo l’Europa, pensavo che in Europa avrei trovato di meglio. Era l’83… misi quello che avevo in uno zaino, riuscii a racimolare i soldi per un volo e approdai in Francia. Pensavo che con la musica, suonando il basso per strada mi sarei potuto mantenere, amici mi consigliarono di spostarmi a  Torino dove non c’erano tanti artisti di strada e ci provai. Con altri immigrati fondammo  un gruppo musicale i «Tere deni», «Figli del sole»: d’estate raccoglievamo i pomodori prima nel napoletano, poi a Piacenza e suonavamo. Con la legge Martelli ottenni i documenti, tornai ancora a Torino. Abitavo in corso Emilia, avevo trovato una moglie, due figlie, mi arrangiavo. La vita era dura, ma avevo una casa. Poi la separazione e la vita per strada… un giorno nel 2012 mi chiamarono a suonare in piazza Galimberti, da quel concerto conobbi alcune persone che vivevano al Moi e nel 2013 mi trasferii e lì e vi sono rimasto fino all’ottobre scorso quando ho incontrato chi mi ha salvato…

Perché dici che chi ti ha portato fuori dal Moi ti ha salvato?

Perché vivere lì è stata una cosa tremenda. Inizialmente non ero nei sotterranei, ci sono arrivato con il tempo. Dai piani più alti agli scantinati è una discesa nel degrado. Li ogni cosa è regolamentata dal commercio, ‘vuoi una sigaretta, vuoi avere un po di caldo, di luce’? Paghi… Un circolo chiuso in un ambiente dove stai nel rischio di incendi, al freddo, dove non c’è igiene…non c’è dignità. Sono scivolato lì, ma penso che visto che lo sgombero è partito di li, da quegli spazi che erano più a rischio, sono stato fortunato…

Parla Jean e tocca un rosario che insieme a una collana in cui è infilato un plettro per suonare il baso gli fa il giro intorno al collo…

Questo rosario l’ho trovato per terra, proprio nel seminterrato del Moi. Io non sono praticante ma credo che Dio esista e che non sia un caso che io abbia avuto questa opportunità, abbia potuto incontrare persone che mi hanno ascoltato, mi hanno dato fiducia e che ora non voglio deludere nel lavoro che sto facendo. Persone che capiscono che non si deve giudicare una persona perché è straniera, che non si deve alimentare l’odio tra chi è disperato…Se non fossi sceso li sotto, dove ho trovato questa croce, non sarei risalito.

Hai parlato di opportunità…

Quando mi hanno portato fuori dal Moi mi hanno dato una casa e poi  mi hanno fatto fare un corso per diventare macellaio, ora sto facendo un tirocinio lavorativo nel reparto di macelleria di Eataly e mi trovo bene, i colleghi non mi guardano come avviene spesso in tanti posti, non usano quello sguardo che dice ‘tu sei straniero’, quello sguardo che ferisce che ti viene rivolto per strada, sul tram…

Sguardi, giudizi, culture diverse, ma dopo 30 anni ormai che sei qui pensi  che tornerai nella tua terra?

Potessi partirei stasera. La gente questo non lo immagina, non pensa che noi non dimentichiamo mai i posti dove siamo nati, da dove veniamo, la sofferenza con cui li lasciamo. Io ora ho un piccolo sogno: due anni fa  è morta mia mamma, non sono potuto rientrare, vorrei riuscire a mettere da parte qualche soldo per  fare il viaggio, per tornare per fare un ‘funerale’, per ricordarla. Intanto  finche sono qua so che  devo capire, conoscere la cultura di questo paese. Dobbiamo tutti conoscerci di più… in tanti anni nessun amico italiano mi ha portato in casa dei genitori, c’è ancora tanta strada da fare…ma io sono ottimista. So quello che ho vissuto e so che ora ho una opportunità che non posso sprecare.

Ma di Torino cosa ti piace di più?

Suono la sera in tanti posti, al Valentino, in piazza Castello, ma Porta Palazzo è il posto più bello, i suoni, i colori lì tutto si mescola, senza confini…

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