«Alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII» era dedicato, nei titoli di testa, il film «Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini, che nel 1964 fu presentato alla 25ª Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. «L’Osservatore Romano» celebrò il 50° del film come «un capolavoro, probabilmente il miglior film su Gesù mai girato», sul quale fioccarono un numero impressionante di premi.
Pier Paolo Pasolini nasce cento anni fa a Bologna, 5 marzo 1922. Google-Wikipedia lo definisce «poeta, sceneggiatore, attore, regista, scrittore e drammaturgo. Culturalmente versatile, si distinse in numerosi campi, lasciando contributi anche come pittore, romanziere, linguista, traduttore e saggista. Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni Settanta nonché figura a tratti controversa, suscitò spesso forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi e della nascente società dei consumi, come anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il suo rapporto con la propria omosessualità fu al centro del suo personaggio pubblico».
Nel centesimo della nascita ben pochi hanno ricordato il suo film capolavoro, film di un laico, che mette in luce l’umanità ma non la divinità di un Gesù severo. È il film di un poeta ma è un Vangelo senza speranza, dal quale il non credente Pasolini tagliò tutti i passi escatologici e la maggior parte dei miracoli. Allora la critica di matrice cattolica esultò. I comunisti masticarono amaro in anni in cui nel Pci c’era un pensiero unico, quello che «Migliore», il segretario Palmiro Togliatti che era morto a Yalta in Urss il 21 agosto 1964. Insulti beceri vennero dai neofascisti e dai cattolici in camicia nera. La stampa di destra lo liquidò come «una pasolinata conciliare e un comizio comunista». Erano furibondi, i cattofascisti, perché fu proiettato ai vescovi del Concilio nella terza sessione del 1964 e ci fu una proiezione privata per Paolo VI, che nel 1963 era succeduto a Papa Giovanni.
La prima idea viene a Pasolini il 4 ottobre 1962, in un’Assisi in festa per la visita di Giovanni XXIII, che era già stato a Loreto, in pellegrinaggio di preghiera alla vigilia dell’apertura del Concilio Vaticano II. Il regista è invitato da un suo grande amico, don Giovanni Rossi, già segretario del cardinale arcivescovo di Milano, beato Carlo Andrea Ferrari, e fondatore dell’associazione «Pro Civitate Christiana».
Il film nasce proprio dal mancato incontro tra Pasolini e Papa Roncalli. Lo racconta il cardinale Loris Francesco Capovilla, già segretario di Giovanni XXIII, in una videointervista realizzata da mons. Dario Edoardo Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano, proiettata in un convegno a Venezia per il 50° dell’opera pasoliniana. Quel giorno, il 4 ottobre 1964, l’artista è ad Assisi, ospite della «Cittadella», per parlare della sceneggiatura e delle riprese del suo film «Accattone». Nel pomeriggio le strade si riempiono di gente festante attorno al Papa bergamasco. Don Rossi chiede a Pasolini se vuole partecipare, ma egli declina l’invito e trascorre il pomeriggio in camera leggendo il libro che c’è in tutte le stanze della «Cittadella», proprio il primo dei Vangeli. Annuncia a don Rossi: «Farò un film sul Vangelo di Matteo. L’ho deciso dopo aver letto, sdraiato sulla branda, il libretto che ho trovato sul comodino. Però dovete aiutarmi, io non sono un credente e sono marxista. Ma non voglio fare nulla che possa offendere la fede».
Per documentarsi va in Terra Santa e accetta le osservazioni e i consigli di don Francesco Angelicchio, consulente ecclesiastico del Centro cattolico cinematografico. Il quotidiano della Santa Sede riconosce in Pasolini «l’abbandono al fluire della pagina evangelica. L’autore affida alla cinepresa un afflato espressivo religioso, una rappresentazione che tocca corde sacre e prende le mosse da un sincero realismo», con Cristo interpretato da un giovane sindacalista antifranchista, la Madonna anziana impersonata dalla madre del regista, la scena disseminata dai volti dei sottoproletari, la scabra e scarna ambientazione nei Sassi di Matera. Per «L’Osservatore Romano» il Vangelo pasoliniano «appare ancora più attuale, concreto, rivoluzionario. Che sia un film su una crisi in atto o su un suo superamento, rimane comunque un capolavoro, sicuramente quello in cui la parola risuona più fluida, aerea e insieme stentorea, scolpita nella spoglia pietra».
Fedele al testo evangelico, riflette la sincerità del regista a prescindere dal suo atteggiamento personale nei confronti della religione e la parola di Cristo viene comunicata agli spettatori in tutta la sua potenza. Per la semplicità dello stile e grazie all’umiltà con la quale presenta i personaggi, quest’opera è di gran lunga superiore ai precedenti e ai successivi film di carattere commerciale sulla vita di Cristo e rivela la grandezza dell’insegnamento evangelico spogliato da ogni effetto artificiale e commerciale. Nel 1964 si esagerò a definirlo il film «ideale» o un film «cattolico ma non religioso», o una «lettura laica» del Vangelo, o una «interpretazione marxista» del Vangelo. L’aspetto evangelico sul quale Pasolini insiste maggiormente è il messaggio sociale – «I poveri saranno evangelizzati» – adatto a tutti i tempi, ieri, oggi, sempre.
La fotografia è firmata da un genio come Tonino Delli Colli e i costumi da un grande come Danilo Donati mentre un tonante Enrico Maria Salerno doppia Gesù, egregiamente interpretato dallo spagnolo Enrique Irazoqui. Il film ricevette un’infinità di riconoscimenti tra cui il Premio speciale della Giuria, dell’Organizzazione cattolica del cinema, 3 Nastri d’argento 1965 per la regia, la fotografia, i costumi.