Pasqua nelle chiese vuote

Settimana Santa – La dolorosa privazione delle celebrazioni comunitarie, i gesti che possono essere ripresi nell’ambiente domestico per vivere il triduo e la festa della Risurrezione. Scrive don Paolo Tomatis

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Questa Pasqua nelle chiese vuote davvero non avremmo saputo immaginarla: per questo ci ha colti un po’ impreparati. Ora che è arrivata, ci chiediamo che cosa possa significare, cosa voglia dirci e soprattutto come viverla al meglio.

Due atteggiamenti opposti devono essere evitati. Il primo è quello di chi dice: «non importa, non fa nulla», tanto abbiamo la Parola da meditare, la televisione e i social a cui connetterci, ed è la volta buona che usciamo da una religione stanca fatta di riti abitudinari per adorare Dio «in spirito e verità» (Gv 4, 23-24), nell’interiorità della nostra anima, piuttosto che nella «vera liturgia» che è l’amore del prossimo. Ascoltando questo modo di ragionare, viene il dubbio che non ci si tenga davvero a radunarsi come Chiesa per celebrare quei riti che portano la fede e la vita nel cuore dell’amore pasquale di Gesù.

L’atteggiamento opposto è quello di chi dice: «dove siamo finiti?», trasformando il senso di una nostalgia acuta in un grido di accusa rivolto ai vertici della Chiesa, di mancanza di coraggio nei confronti dello stato e addirittura di mancanza di fede. Il dito puntato è su una Chiesa debole dalla fede intiepidita, che non osa alzare la voce per rivendicare che per un cristiano andare in chiesa costituisce una necessità da riconoscere e tutelare, almeno al pari di quella di chi deve uscire per comprare le sigarette dal tabaccaio. È interessante notare come i due atteggiamenti opposti siano accomunati da uno scarso senso dell’importanza di ritrovarsi insieme come comunità cristiana in preghiera. Questa Pasqua con le chiese vuote svela un senso comunitario ancora troppo debole, per cui andare in chiesa non equivale ad andare all’assemblea. Pochi avvertono, nel loro grido, il dolore per il digiuno della celebrazione più bella: la Veglia pasquale. Questa Pasqua con le chiese vuote rivela concezioni dell’Eucaristia riduttive, come quella che pensa all’Eucaristia sostanzialmente come al corpo di Cristo da ricevere in comunione. Se la sostanza della Messa è questa, la comunione fuori della Messa potrebbe tranquillamente bastare.

Questa Pasqua con le chiese vuote porta dunque allo scoperto il nostro modo di vivere e sentire la fede. Chi vive la religione nella logica del dovere è dispensato ma anche un po’ smascherato. Chi vive la religione nella logica del bisogno è messo alla prova e disorientato. Chi la vive nella logica del desiderio, che prende il dovere e il bisogno e li impasta in qualcosa di più grande, è messo alla prova ugualmente ed è chiamato a far incontrare il proprio desiderio di fare Pasqua con il desiderio del Signore di fare Pasqua con noi, anche in questa situazione eccezionale.

Far Pasqua si può. «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22, 15): la parola di Gesù ai discepoli può essere applicata a questa Pasqua tutta particolare, nella quale il Signore desidera fare Pasqua con noi, anche se ci sentiamo nella situazione di chi è ancora sulla barca in tempesta, per riprendere la metafora utilizzata da papa Francesco, o in mezzo al guado, per recuperare la metafora pasquale del passaggio del mar Rosso: situazioni di difficoltà che non ci pongono nelle condizioni migliori per festeggiare.

Eppure, anche in questa situazione, il Signore desidera fare Pasqua con noi, negli impedimenti della vita che ci privano dei grandi segni della Pasqua: senza le palme e la lavanda dei piedi, senza la visita agli altari della reposizione e la via crucis per le strade del paese o del quartiere; senza l’incanto della veglia pasquale con il fuoco acceso e il cero che brilla nella notte, e soprattutto senza la presenza fisica della comunità radunata per le celebrazioni del Triduo. Viene da chiedersi: ma è davvero possibile fare festa togliendo tutti gli ingredienti della festa? Certamente no. La sfida a cui siamo chiamati è quella di far risaltare, anche in questa situazione di emergenza, tutti quei gesti e quei riti possibili, capaci di portare la nostra vita alla sua sorgente. Sono gesti e riti che rimandano alla sfera personale del cuore e alla dimensione comunitaria della casa, per cui alla domanda dei discepoli: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?» (Mt 26, 17), Gesù sembra che ci risponda così: quest’anno desidero far Pasqua a casa tua, nel tuo cuore, in mezzo ai tuoi affetti.

Pasqua domestica. Non è facile attivarsi da soli per fare della nostra casa e del nostro cuore un luogo di celebrazione. Non siamo tanto abituati e bisogna fare i conti che quest’anno non facciamo solo la Pasqua a chiese vuote, ma anche a porte chiuse. Non possiamo muoverci per fare Pasqua con i nostri cari. Per chi vive solo è un peso ulteriore. E anche per chi vive insieme non è scontato che si possano condividere tempi e spazi di preghiera. Per questo motivo, gli inviti dei vescovi, del papa e dei nostri pastori a unirsi spiritualmente, anche con l’aiuto delle trasmissioni video, alle celebrazioni del Triduo che saranno eccezionalmente celebrate «senza concorso di popolo» e a vivere come famiglia i giorni del Triduo, anche con l’aiuto di sussidi appositamente preparati, non possono ritenere la celebrazione domestica come qualcosa di scontato. Si tratta nondimeno di una sfida affascinante da accogliere: quella di ritrovare i riti della Pasqua nei gesti della vita, così che il Triduo pasquale non sia più qualcosa che accade in chiesa, ma che accade nella nostra vita, nello scorrere di questi giorni santi, da vivere chiusi in casa.

A questo proposito, merita ricordare come la liturgia abbia organizzato la struttura del Triduo di morte, sepoltura e risurrezione come se si trattasse di un’unica grande ufficiatura, estesa in tre giorni (venerdì, sabato, domenica), nei quali i grandi segni delle celebrazioni si intrecciano con i piccoli segni della ritualità popolare, personale e familiare, che portano il Triduo fuori della chiesa, in strada e in casa. Ci sono dei dettagli nella liturgia del Triduo ai quali forse non abbiamo finora prestato l’attenzione dovuta. All’inizio della messa in Coena Domini del giovedì santo si entra nel Triduo con il segno della Croce, ma poi alla fine della Messa non c’è la benedizione dei fedeli: si va a casa, ma la celebrazione pare non essere terminata. Il giorno successivo, la celebrazione della Passione del Signore che si svolge nel venerdì santo non si apre con il segno di croce né si chiude con la benedizione. La notte della veglia pasquale, coerentemente non si apre con il segno della Croce. Tutto è lasciato aperto, perché il Triduo appaia come una unica grande e continua celebrazione distesa in tre giorni, dentro e fuori della chiesa.

I riti della Pasqua nei gesti della vita. Se questo vale per i tempi normali, vale ancora di più per questa situazione eccezionale. I segni del Triduo da valorizzare non mancano. Al giovedì santo, il grande segno è quello di un pane spezzato e di un calice condiviso alla tavola dell’amore che dà la vita: un amore che si manifesta nel segno del chinarsi per la lavanda dei piedi. Il primo segno ci manca e ancora ci mancherà: il secondo ha brillato e brilla nei tanti esempi di «lavanda dei piedi» negli ospedali e nelle case di riposo. Un pane spezzato prima di cena potrà ricordare l’ultima cena di Gesù e, in essa, il senso della nostra vita.

Al venerdì santo, il grande segno è la Croce con il crocifisso dalle braccia aperte: occorre staccare dal muro il crocifisso, e tenerlo vicino a noi, in un luogo prezioso della casa, perché ci apra ad una preghiera universale. Insieme alla preghiera, il venerdì santo è il giorno del grande digiuno: un segno che ci invita a condividere il peso di chi sta nella tribolazione.

Il sabato santo è il giorno del grande silenzio, e ci arriveremo allenati da questi giorni di strade e piazze vuote. È un silenzio che potremo abitare nell’ascolto di cosa sarebbe il mondo senza Dio, e nel ricordo di tutti i defunti di questi giorni e della nostra vita.

La sera della veglia, aspetteremo il buio per accendere una luce, e leggere la parola di Dio che fa uscire il mondo dal caos (creazione), dalla schiavitù (Esodo), dall’esilio (Isaia) e dalla morte (vangelo). Il segno dell’acqua, che è memoria della nostra risurrezione iniziata nel battesimo, può recuperare una antica tradizione popolare: quella di bagnarsi gli occhi per ricevere la grazia di uno sguardo nuovo.

Infine la domenica della festa: l’Alleluia deve esplodere, se non sui balconi, almeno in casa, e tutte le tradizioni culinarie si daranno l’appuntamento per festeggiare la pienezza della vita che vince ogni morte, anche quella contro cui stiamo lottando in queste settimane. Ce la faremo a porre questi gesti, che stanno sulla soglia tra i riti della Chiesa e i riti della vita? Possiamo provarci, e non sarà una Pasqua meno intensa.

C’è, infine, un ultimo segno che è chiamato a fare Pasqua: è il segno dell’abbraccio. Ci è stato tolto, per cui quest’anno celebriamo la Pasqua non solo con le chiese vuote, a porte chiuse, ma pure senza abbracci. L’inno di Pasqua della liturgia orientale così prega: «È il giorno della Risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa, abbracciamoci gli uni gli altri, chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano, perdoniamo tutto per la Risurrezione». Nell’attesa di ritrovare presto questo abbraccio, ci sia dato il dono di sperimentare anche quest’anno la grazia della Resurrezione, che non fa tornare tutto come prima, ma che sempre è capace di dare inizio a qualcosa di nuovo, che ha sempre a che fare con la nostra capacità di allargare le nostre braccia, a immagine di Cristo sulla Croce.

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