Viste dagli Emirati Arabi, le discussioni occidentali sull’apertura dei centri commerciali nel giorno di domenica sono inspiegabili. Il Vescovo Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia Meridionale (che comprende Emirati, Yemen e Oman), 76 anni, frate cappuccino, è originario della Svizzera tedesca e spesso si interroga sulle crepe culturali dell’Occidente da cui proviene: un mondo «cristiano» che fatica a dialogare con l’Islam anche perché «dà segni di perdere la propria identità». Hinder ne ha parlato il 27 settembre a Torino durante un dibattito promosso al Teatro Cottolengo dall’Ottobre Missionario della Diocesi per presentare il suo recente libro «Un vescovo in Arabia – La mia esperienza con l’Islam» (Emi, Verona 2018, pagine 208, euro 18).
Nei Paesi arabi il commercio sa fermarsi?
L’inserimento di pause per la preghiera nell’orario di lavoro qui è un’ovvietà. Anche nei giorni lavorativi, all’ora della preghiera islamica, le strade davanti alle moschee di Abu Dhabi e Dubai si riempiono di gente diretta al luogo del culto. Per noi europei, questa possibilità di conciliare preghiera e lavoro è sorprendente e inusuale. Sarebbe interessante vedere cosa succederebbe se un top manager europeo sparisse più volte al giorno per andare a pregare.
Sta dicendo che l’Occidente deve imitare l’Islam?
Non sto dicendo questo, non dico che l’Europa debba trasporre i modelli islamici nel cristianesimo. Ma osservo che il modello di compatibilità tra religione e lavoro nella quotidianità del mondo arabo ha qualcosa di profondamente suggestivo.
Cosa?
È un modello che mette in discussione, almeno nei segni, l’idea che l’uomo debba sottomettersi in tutto alle regole dell’economia. Che l’uomo debba subordinare al profitto le dimensioni della relazione, del riposo, della famiglia. Se davvero in Europa i giorni della settimana diventassero tutti uguali, senza più un giorno di festa, di pausa, io lo considererei una perdita di prima classe.
Mons. Hinder, solitamente non ascoltiamo questo tipo di racconto dai Paesi arabi…
Non voglio essere frainteso. L’esperienza religiosa dei cristiani in Paesi come gli Emirati Arabi è spesso molto faticosa, sottoposta a limitazioni pesanti. Semplicemente dico che dopo 15 anni di ministero in questi luoghi (ho la sede vescovile ad Abu Dhabi) sto imparando a riconoscere anche grandi valori del mondo islamico. Il dialogo deve tener conto dei problemi, ma anche cogliere i valori, che incoraggiano la ricerca dell’incontro.
Quali sono le fatiche?
Sono purtroppo fatiche note. Nei Paesi della penisola arabica la Chiesa Cattolica è autorizzata ad avere chiese (con regole che cambiano da Paese a Paese), ma ha il divieto di compiere proselitismo. Le conversioni sono vietate. Sulle nostre chiese è vietata la collocazione di croci visibili dalle strade. Non abbiamo campanili, sarebbe peraltro vietato suonare le campane. Abbiamo opere caritative, ma per prudenza non abbiamo mai istituito la Caritas: rischierebbe di essere considerata una organizzazione di proselitismo. Ecco, ci muoviamo in questi confini. Abbiamo avuto i nostri martiri, per esempio in Yemen, ma complessivamente siamo tollerati, io non ho mai dovuto temere per la mia sicurezza. Certo, siamo considerati ad un livello inferiore rispetto ai musulmani. La Chiesa qui comunque esiste e dà la sua testimonianza, un milione di fedeli, in prevalenza immigrati venuti a lavorare nei Paesi arabi. Siamo una Chiesa di migranti. Nella Cattedrale di Abu Dhabi, per accogliere tutti alla Messa domenicale siamo costretti a tenere 25 celebrazioni! Cominciamo il venerdì…
Siete una Chiesa di migranti. L’Europa sta litigando proprio sul tema dei migranti. Cosa ne pensa?
Quando ci domandiamo come sarà ricordata dalla Storia questa nostra epoca, pensiamo al tramonto del marxismo, alla vittoria del capitalismo, alla globalizzazione… Ma a me sembra certo che il nostro tempo resterà nelle memoria soprattutto come quello in cui i migranti e i profughi avranno posto nuove e grandi questioni alle nostre istituzioni e ai nostri valori. Non sono in pochi a sostenere che il futuro dell’Unione Europea, il futuro dell’Europa, si deciderà alle frontiere esterne ed interne; non ai piani alti delle banche, come si riteneva fino a qualche anno fa. Ecco, qui dalle nostre parti facciamo l’esperienza di noi migranti a servizio dei migranti.
Il Vicariato dell’Arabia meridionale si estende in tre Paesi, 900 mila chilometri quadrati. Con quanti preti?
Abbiamo 65 preti, per due terzi cappuccini. Sono tutti stranieri, missionari. E oggi tutti concentrati negli Emirati e in Oman, perché lo Yemen è in guerra, là non ci sono più preti, solo un piccolo gruppo di suore di Madre Teresa di Calcutta. Nei Paesi in pace altre congregazioni di suore sono molto impegnate nelle scuole che accolgono 25 mila studenti cristiani e musulmani, con gli accorgimenti che ho già descritto. Abbiamo 1.400 catechisti, circa 30 mila bambini iscritti alla catechesi settimanale. Venticinquemila i fedeli alle Messe della novena di Natale nella città di Dubai, dove usciamo a celebrare in uno spazio all’aperto.
Dunque vi autorizzano a celebrare all’aperto…
Sì, fissando con chiarezza luoghi e momenti. Siamo sottoposti a limitazioni, ma complessivamente veniamo rispettati. Il dialogo della vita, la conoscenza diretta fra le persone, produce molti risultati. La nostra Chiesa cerca di vivere in pace, di comunicare cordialità e un desiderio sincero di fraternità; mostriamo di rispettare i musulmani nelle loro usanze. Chiediamo rispetto per i cristiani, capita che il Vescovo debba far sentire la propria voce alle autorità, non sempre la ottiene. Ci sono musulmani che si mostrano onorati quando incontrano il Vescovo. Quello che resta molto difficile è il confronto teologico, ma non c’è bisogno di vivere in questi luoghi per capire questa cosa.
In che senso?
Ho partecipato a un meeting interreligioso in Vaticano, ebbene la delegazione musulmana ad un certo punto ha protestato: non accettava la presenza di bottiglie di vino sulla tavola comune. Ha avuto la meglio, ha ottenuto di far togliere le bottiglie. Secondo me non si doveva accettare quell’imposizione. Il dialogo ha bisogno di rispetto, che noi usiamo nei Paesi arabi e che dobbiamo pretendere nei contesti occidentali.