Prima che i 43 naufraghi della nave Sea Watch fossero presi in carico da altri Paesi europei, decine di associazioni e movimenti cattolici torinesi hanno espresso sostegno all’Arcivescovo Nosiglia per la sua disponibilità ad accogliere i profughi presso strutture della Diocesi di Torino e mettere fine a un blocco navale che si prolungava da due settimane. Sono stati registrati anche commenti critici sulla disponibilità data dalla Chiesa torinese. Con questa intervista a «La Voce e Il Tempo» l’Arcivescovo approfondisce il senso del gesto di apertura.

Eccellenza, alla fine i profughi saranno accolti da altri Paesi. Perché lei ha voluto compiere il suo gesto di accoglienza in anticipo, quando la nave era ancora tenuta al largo di Lampedusa?
Sono lieto che la vicenda per le persone immigrate della Sea Watch si sia risolta con l’accoglienza diffusa in alcuni Stati europei. Quello che più mi preoccupava era appunto dare una risposta concreta e appropriata alle esigenze e attese di queste persone togliendole da una situazione di sofferenza e di incertezza che aggravava le loro condizioni di vita e di prospettive future.
I profughi le hanno inviato un messaggio, cosa scrivono?
Sì, gli immigrati e i ragazzi della Sea Watch 3 mi hanno inviato un messaggio dopo la nostra disponibilità ad accoglierli. «In queste due settimane passate al largo delle acque italiane», scrivono, «ci siamo sentiti abbandonati dalle istituzioni e scartati da larga parte dell’opinione pubblica. Il suo annuncio sulla disponibilità della Chiesa di Torino ad accoglierci ci ha fatto sentire riconosciuti nella nostra dignità di esseri umani. Per questo ne siamo rimasti commossi. Anche se non sappiamo ancora come andranno a finire le cose, Lei sappia che la nostra gratitudine verso la Chiesa di Torino è immensa e rimarrà presente sempre nel nostro cuore. È la gratitudine di chi si sentiva escluso e disprezzato e poi si vede riconosciuto come un fratello». Parole che valgono più di ogni altra, favorevole o no alla nostra decisione.
Un gesto politico quello della Chiesa torinese?
No, la nostra disponibilità era e resta mossa da ragioni umanitarie, civili ed evangeliche: per i cristiani la cura dei più fragili è un obbligo morale, avendo Gesù deciso di identificarsi con ognuno di loro. Ci ricorda infatti il Vangelo che saremo giudicati su come avremo accolto e riconosciuto il Signore in chi ha fame, sete, è nudo o è in carcere o ammalato, e in chi è forestiero: tutto ciò che avremo fatto a uno di questi fratelli lo abbiamo fatto a Lui e se non lo abbiamo fatto abbiamo rifiutato Lui. Papa Francesco e il Grande Iman degli Emirati Arabi affermano nel documento sottoscritto sulla Fratellanza universale per la pace mondiale e la convivenza comune: «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani, uguali per la sua misericordia. Il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona specialmente le più bisognose e povere».
Cosa risponde a quanti ritengono che questi siano discorsi «religiosi», distanti dal politica, che segue altri criteri di riferimento?
La politica diceva san Paolo VI è la più alta forma di carità quando viene esercitata con giustizia e solidarietà per servire il «bene comune» e ogni singola persona in particolare i più poveri e scartati, offrendo loro percorsi di inclusione sociale che vanno oltre i sussidi pure necessari, ma promuovono la persona nella sua dignità, ne salvaguardano i diritti e ne orientano la formazione e qualificazione appropriata per il lavoro fonte prima di autonomia e indipendenza.
Il suo gesto di accoglienza impegna tutta la Chiesa torinese, la pone in prima linea in Italia.
Se guardo alla storia recente della Chiesa di Torino trovo un cammino luminoso di testimonianza che i miei predecessori hanno perseguito, avendo a cuore la fedeltà al Vangelo e alle speranze e sofferenze del popolo di Dio, sempre aiutati in questo dal loro clero, dalle comunità religiose e dal laicato. Penso al cardinale Fossati che, nel disastro della guerra, si impegna ad aiutare tutti i perseguitati e gli ebrei in particolare; penso al cardinale Pellegrino e alla scelta preferenziale dei poveri, che in quegli anni erano gli immigrati italiani chiamati a Torino a lavorare nelle fabbriche in espansione. Al cardinale Ballestrero e alla coraggiosa e lungimirante prospettiva della riconciliazione mentre la nostra città – negli anni che ancor oggi chiamiamo di piombo – era dilaniata dal terrorismo. E poi al cardinale Saldarini e al grande impegno per il mondo giovanile. E infine al mio immediato predecessore, il cardinale Severino Poletto, che si prodigò in ogni modo quando la crisi Fiat gettò l’intero nostro territorio nelle difficoltà che ancora oggi dobbiamo affrontare. Ritrovo in ognuna di queste epoche un segno identico di generosità, di impegno, di solidarietà concreta che certo è stato animato dai Pastori, ma che ha sempre trovato una rispondenza convinta nell’intera comunità.
C’è chi accusa la Chiesa di occuparsi dei migranti più degli italiani…
Oggi la Chiesa di Torino eccelle per il suo impegno verso tutte le forme di povertà di cui soffre la nostra società: la mancanza di lavoro per i giovani in particolare, il problema della casa per tante famiglie soggette a uno sfratto incolpevole. I tanti senza dimora che dormono nelle nostre strade, anziani soli e con scarsa pensione, i disabili che gravano sulle loro famiglie… La Diocesi, i Centri di ascolto della Caritas in ogni parrocchia, la San Vincenzo, il Sermig, il Cottolengo, S. Egidio e tante associazioni cattoliche incontrano e sostengono molte decine di migliaia di persone e famiglie. In questa circostanza c’è stata una gara di solidarietà da parte di tanti cittadini. Una trentina di famiglie si è resa disponibile ad accogliere uno e due immigrati nelle loro case, altrettanto diversi Istituti religiosi, associazioni, gruppi e realtà ecclesiali e cittadine. Ancora una volta Torino si è rivelata la città della Provvidenza su cui hanno scommesso i nostri Santi sociali, da Don Bosco al Cottolengo e al Murialdo, ai venerabili marchesi di Barolo.