Nell’Italia dell’inquieto primo dopoguerra c’è una gravissima crisi situazione economica e sociale, motivata dalla difficile riconversione dalla produzione bellica a quella civile e da una forte conflittualità sociale tra i lavoratori dell’industria e delle campagne. La ricerca storica nega la connotazione rivoluzionaria del «biennio rosso» 1919-20, culminato nell’ondata di occupazione delle fabbriche, a partire dalla Fiat di Torino. La socialista Confederazione generale del lavoro con 2 milioni di iscritti e la Confederazione italiana dei lavoratori di ispirazione social-cristiana con un milione e 200 mila iscritti, fondata nel 1918, conoscono un rapido sviluppo.
Sul piano politico il vecchio ceto liberale non è più incapace di dirigere la macchina dello Stato, divenuta fortemente autoritaria durante la Grande Guerra. Alle elezioni del 16 novembre 1919 – per la prima volta con il suffragio universale maschile e con il metodo proporzionale – i fascisti e Benito Mussolini sono trombati; il Partito Socialista e il Partito Popolare italiano – interclassista, non confessionale, riformatore, appena fondato da don Luigi Sturzo – ottengono grande successo elettorale: 156 deputati socialisti e 100 popolari. Ma una forte instabilità politico-istituzionale caratterizza il primo dopoguerra. Asserisce lo storico Carlo Felice Casula: «La causa prima è la mancata intesa di questi due partiti, per pregiudiziali ideologiche più che politiche, nonostante entrambi siano espressione dei ceti popolari desiderosi di uscire dalla marginalità in cui li aveva tenuti lo Stato postunitario liberale. Dalla fine della guerra, fino alla marcia su Roma e all’ascesa di Mussolini, si succedono i governi di Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Giovanni Giolitti, Ivanoe Bonomi e Luigi Facta.
Nelle elezioni anticipate del 1921 i socialisti perdono alcuni seggi, i popolari ne guadagnano 7. La novità sono i 16 deputati del Partito Comunista, nato al XVII congresso socialista (15-20 gennaio 1921), dalla scissione capeggiata da Amadeo Bordiga e dal gruppo torinese de «L’Ordine Nuovo» (Antonio Gramsci, Luigi Longo, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti). L’altra novità sono i 35 parlamentari del movimento fascista creato da Mussolini nel 1919 «che mobilita e organizza militarmente – dice Casula – gruppi crescenti di ex combattenti, delusi per la “vittoria mutilata”, giovani nazionalisti, studenti sprezzanti i socialisti e popolari. Il “biennio rosso” 1921-22 è caratterizzato da azioni violente e armate delle squadre fasciste delle “camice nere” con una sistematica aggressione-distruzione di case del popolo, camere del lavoro, leghe bianche e rosse, amministrazioni comunali, sedi di giornali e di sindacati. L’idea della violenza come strumento di lotta politica diventa pratica diffusa e normale, anche per la sostanziale acquiescenza delle autorità politiche e militari. La marcia su Roma è la conclusione di questo processo, non una recita teatrale. I suoi promotori la programmano meticolosamente nell’estate, la portano a termine vittoriosamente, anche perché la classe dirigente non comprende che si tratta di una rivoluzione, dalla quale inizia l’«era fascista».
Durante la crisi come si comporta la Chiesa? Artuto Carlo Jemolo, nel suo magistrale libro «Chiesa e Stato in Italia», sostiene: «La gerarchia ecclesiastica restò assente e col cuore in sospeso». Lo storico gesuita Giovanni Sale sull’ultimo quaderno di «La Civiltà Cattolica» nel saggio «A cento anni dalla Marcia su Roma», spiega l’atteggiamento del neo-papa Pio XI verso il fascismo «Pur non assolvendolo dalle violenze commesse, cercò di dare fiducia a Mussolini, nella speranza che riuscisse a “cristianizzare” il partito che si credeva dominato dalla Massoneria e, partendo dalla sua posizione di forza, riuscisse a dare uno sbocco soddisfacente alla “Questione romana”».
Un comportamento grave e scandaloso caratterizza re Vittorio Emanuele III: non solo non firma il decreto d’assedio – come gli chiede il governo Facta – ma affida a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo e lascia sfilare per le vie del centro di Roma le squadre fasciste come un esercito trionfante.
Lo storico Giovanni De Luna scrive su «La Stampa»: «La marcia su Roma svelò un’Italia preda di un’ubriacatura collettiva. A Mussolini riesce il capolavoro di incarnare sia il rivoluzionario che prometteva un futuro radioso, sia il restauratore che avrebbe ristabilito ordine e legalità, sgominando i sovversivi “professionisti del disordine”». In due anni il duce mostra la vera natura liberticida e sanguinaria della dittatura. Eppure – ricorda De Luna – 6.500 Comuni su 8 mila, gli conferiscono la cittadinanza onoraria e la sua segreteria è subissata da onorificenze, omaggi, dediche, «lasciando affiorare una folla di italiani servili e compiaciuti di esserlo, deferenti, ossequiosi, pronti a barattare la propria sovranità individuale e la propria autonomia in cambio di protezione e sicurezza».
Per vent’anni si esaltano la disciplina, l’obbedienza, la gerarchia che avvelenano le coscienze degli italiani. L’obbedienza al potere, «tirare a campare» l’individualismo, il «tengo famiglia» e «mi faccio i fatti miei» sono i valori dominanti. De Luna descrive magistralmente la parabola del fascismo: «Nato nelle trincee della Grande Guerra, il fascismo è travolto dalle macerie della Seconda con conseguenze devastanti: 70 mila morti sotto i bombardamenti, l’unità nazionale in frantumi, gli eserciti alleati e quelli tedeschi che spadroneggiano a casa nostra. Altro che “prima gli italiani” dell’attuale destra. Macerie, lutti e ferite di una sanguinosa guerra civile fu il lascito del fascismo all’Italia repubblicana».
I 5.620 condannati dal Tribunale speciale (3898 operai, 546 contadini, 221 professionisti, 238 commercianti, 296 impiegati, 37 casalinghe) e i 15.806 deferiti allo stesso Tribunale, per De Luna «sono pochi, pochissimi rispetto ai milioni di persone che affollano le piazze di Mussolini e corrono a prendere la tessera del Partito nazionale fascista. Quando, nel 1931, il governo introduce l’obbligo per i docenti universitari di giurare fedeltà al fascismo, su 1200 professori solo 12 hanno il coraggio di rifiutare. È l’Italia «presa per incantamento» dal duce e dal fascismo. Purtroppo non fu l’unica volta.