«Sono vittima dell’età: quel poco che faccio lo faccio con più tempo, e spesso debbo rifarlo. Ma sono contento perché siamo sposi da 64 anni, tre figli: il primo professore ordinario a Firenze e ricercato spesso all’estero; il secondo giornalista ad “Avvenire”; il terzo tecnico delle comunicazioni ben sistemato; cinque nipoti (2+2+1). Ringrazio il Signore per tutti questi doni». Pier Giorgio Liverani, morto a Roma il 7 settembre 2022 a 93 anni, fu direttore di «Avvenire» e fu un convinto «cantore della vita»: è giusto ricordarlo nella 45ª Giornata per la vita del 5 febbraio 2023.
Nasce a Verona il 28 aprile 1929. Si laurea in Giurisprudenza. Sposa Ada – vivranno insieme 64 anni – e hanno tre figli. Iniziata la professione giornalistica, approda ad «Avvenire»: capocronista, capo della redazione romana, vicedirettore. Scrive Guido Bossa, che ad «Avvenire» collaborò molto con lui: «Ha attraversato, da cattolico, il passaggio tra i due secoli che hanno trasformato la convivenza civile dal boom economico alle crisi energetiche, dalla cupa stagione del terrorismo agli albori del terzo millennio; ha seguito e commentato il radicamento del Concilio, la crisi del cattolicesimo politico, la trasformazione del sistema democratico con il declino delle formazioni tradizionali e la nascita di nuovi partiti».
Ad «Avvenire», fermamente voluto da Paolo VI e uscito il 4 dicembre 1968, in 55 anni si sono avvicendati otto direttori: Leonardo Valente (1968-69), Angelo Narducci (1969-80), Angelo Paoluzi (1980-81), Pier Giorgio Liverani (1981-83), Guido Folloni (1983-90), Lino Rizzi (1990-94), Dino Boffo (1994-2009), Marco Tarquinio (2009-…). Il 7 gennaio 1981 Liverani diventa direttore «in anni durissimi e difficilissimi»: procedure per lo «stato di crisi»; piano editoriale di rilancio che prevede drastici tagli di giornalisti e poligrafici, «anni superati – osserva Bossa – anche grazie alla sua capacità di tenere ferma la barra del timone senza cedere a stanchezza e pessimismo». L’attuale direttore Tarquinio lo considera «testimone della verità, espressa con intelligenza e stile pungente; uomo che si è messo al servizio della collettività e che ha saputo mettersi di lato dando prova di grande umiltà. Ha continuato a servire con intelligenza, passione, disponibilità e umiltà un’idea buona di informazione e di vita. L’ho sempre considerato un esempio». Si impegna nel laicato anche con incarichi di responsabilità nell’Azione cattolica. A me diceva che il suo destino in Ac era segnato perché i suoi genitori «mi hanno messo nome Pier Giorgio per ricordare il grande beato torinese Pier Giorgio Frassati».
È giusto ricordare quello che Liverani ha fatto in difesa della vita nascente. Il Movimento per la vita lo definisce «una colonna, una risorsa, un esempio di professionalità e amore per la vita». Si è spento nella festa liturgica di Santa Teresa di Calcutta a cui Pier Giorgio aveva dedicato un libro molto bello e intenso. Per la rivista «Sì alla vita» ha scritto molti articoli e la rubrica «Diario». Testimonia Marina Casini Bandini, presidente del Movimento per la vita: «Con il suo sguardo attento e meticoloso, profondo e mai scontato, critico e sempre ragionevole, Pier Giorgio ha saputo raccontare, ogni mese e in poche righe, vittorie e sconfitte della politica sui temi della vita nascente, in Italia e nel mondo. Dall’autorevole studioso di antilingua non poteva mancare una certosina opera di controinformazione là dove dietro le parole di certa stampa si celavano i più grandi inganni contro la vita nascente».
Oggi sempre più spesso nel dibattito sui temi bioetici – aborto, eutanasia, manipolazioni genetiche – si usano termini che celano grandi inganni. Non sono fenomeni isolati. La strategia è nota e Liverani l’ha messa a nudo con rigore e vigore: l’utilizzo di una «lingua al contrario» diventa funzionale per far passare come buone
situazioni che in realtà sono sempre negative. Il fenomeno prende nome di «antilingua, l’insieme delle parole dette per non dire quello che si ha paura di dire».
L’antilingua diventa un truffaldino sistema di comunicazione e manipolazione, allo scopo di nascondere la verità contenuta nelle parole. In altri termini, l’antilingua aiuta a trasformare parole e significati che, per gli obiettivi di chi le usa consapevolmente, sono controproducenti per i finì che si vogliono raggiungere. Scrive Liverani: «Ogni parola, come ogni gesto, ha il suo significato: ci si intende per questo. Se parlo un’altra lingua o se cambio il significato delle parole e dei gesti, gli altri non mi capiranno più». Obiettivo dell’«antilingua» è confondere e manipolare: «Alle parole-verità, alle parole immediatamente e naturalmente espressive di un significato consolidato, percepibile, inequivocabile, vengono sostituite parole di comodo dal significato molto pallido ed evanescente, meno sgradevole o più gradito».
Si passa dalle parole-verità alle parole-menzogna. L’obiettivo, più o meno evidente, è sempre quello di costruire, nel tempo e con potenti mezzi, una vera e propria biopolitica contro la vita, specialmente contro quella nascente. Senza ombra di dubbio la legge 194 del 1978 è un capolavoro di antilingua. E uno degli esempi più evidenti è l’utilizzo del termine «interruzione volontaria di gravidanza» per indicare «aborto». L’asettica definizione di «interruzione volontaria di gravidanza» contribuisce a ridimensionare la carica emotiva della parola «aborto». L’accurata e sofistica eliminazione delle parole «madre» e «figlio» dal testo della legislazione in materia di aborto contribuisce a spersonalizzare la dinamica abortiva, con l’indicazione dei più freddi e meno impegnativi termini «madre», «concepito», «feto». Per non parlare dell’ipocrita cenno al «nascituro» il quale, proprio a causa dell’aborto, non nascerà mai. Nel tempo e con l’uso di parole equivoche l’aborto da «delitto» è diventato impropriamente, e non senza equivoci e distorsioni della realtà, un «diritto». Si grida al «diritto delle donne», mai uno che pensi, dica e proclami il «diritto del nascituro».