Sarà pure, come ha detto il premier Conte, che a febbraio il governo decise la chiusura delle scuole «con grande preoccupazione, sapendo del grave anno che ne sarebbe derivato». Ma da allora in poi, e sono trascorsi quattro mesi nei quali il governo si è occupato di tutto – emergenza sanitaria, economia, sicurezza sul lavoro, reperimento risorse necessarie per far fronte alla grave crisi in corso –, neanche un mezzo tentativo per riportare a scuola prima della fine dell’anno scolastico se non tutti almeno una parte dei ragazzi o per organizzare un piano emergenziale in vista della riapertura delle aule. Un pessimo segnale: come se la scuola non rientrasse nelle priorità del Paese.
Tutto è stato affidato alla buona volontà dei docenti che hanno dovuto improvvisare la cosiddetta Didattica a distanza dalla sera al mattino e ai genitori che, a loro volta, sono stati impegnato a seguire passo passo il lavoro scolastico dei figli se e quando erano in grado di farlo.

Non sono mancate proposte e soluzioni provvisorie per evitare una così lunga e dannosa sospensione delle lezioni, ma il ministero dell’Istruzione e sindacati hanno convenuto che non si potessero rischiare focolai dentro le aule anche quando è stato evidente che la curva epidemica (da metà maggio) era in netto calo e in molti altri Paesi europei le scuole riaprivano. Ma ciò che è più incomprensibile è perché sia trascorso senza decisioni un periodo così lungo al punto da rincorrere ora il tempo perduto per far cominciare alla meno peggio le lezioni.
Tanta inerzia si pagherà a grave prezzo. Se tutto andrà bene, come sinceramente ci auguriamo, si tornerà in classe il 14 settembre con molte questioni irrisolte e scaricate sulle spalle degli 8 mila capi istituti. Con le regole imposte dall’emergenza mancheranno infatti aule per circa il 15% degli alunni italiani (oltre un milione), si dovranno assumere 50 mila docenti per far fronte alle situazioni più critiche, andranno ripensati i trasporti in funzione degli ingressi scaglionati. Non solo: si dovranno riorganizzare gli spazi interni agli istituti, regolamentare nuovi orari di lezione, eventualmente accorpare alcune materie, predisporre nuove norme per il funzionamento della mensa e molto altro ancora. Come sia possibile soddisfare tutte queste esigenze in due mesi (compreso il fatidico agosto quando tutto si ferma) appartiene al principio che sovrintende al periodo ipotetico del terzo tipo, e cioè dell’impossibilità.
Dunque non è difficile prevedere – naturalmente speriamo di essere smentiti – che le lezioni riprenderanno in un contesto di grande precarietà, più o meno bene a seconda di tante variabili: le caratteristiche dei diversi edifici scolastici, l’intraprendenza e il coraggio messo in campo dai dirigenti (a costo di rischiare di persona se qualcosa va storto), la più o meno pronta disponibilità di Comuni e Regioni a fare la loro parte…
Che in queste condizioni possa scaturire una «scuola più moderna e inclusiva» come auspicano la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina e il premier Conte è un desiderio che rischia di restare tale. Famiglie e insegnanti sperano soltanto che ritorni un minimo di normalità, che la bufera epidemica non riprenda vigore e che il tempo perduto da febbraio in poi possa essere quanto prima recuperato, comprese le insufficienze dei promossi con aiutino.
Qui sta la seconda parte del problema scolastico e cioè il suo rilancio. Di scuola non si è parlato negli Stati Generali, di scuola non si è mai parlato nei ricorrenti messaggi televisivi del presidente Conte e quando se n’è parlato è stato solo per concordare se e come fare un corso per l’ennesima quota di precari da sistemare. Se si confrontano questi silenzi con l’allarme lanciato dal Fondo monetario internazionale circa i danni causati dalla sospensione dell’attività didattica in 150 Paesi, compreso naturalmente il nostro – danni incalcolabili sul piano della preparazione per quanto non registrati in nessun bilancio – c’è di che restare per lo meno molto sorpresi.
Non è tuttavia casuale che la scuola sia stata il fanalino di coda dell’emergenza perché scuola ed educazione non appartengono al patrimonio genetico di una parte almeno di questo governo e se non si crede nel valore dell’istruzione e della cultura è difficile prendersi cura di quella istituzione così complicata e complessa da gestire che è la scuola. La scuola non porta voti e spesso porta solo rogne a chi governa e allora tanto vale nasconderla nel dibattito pubblico, lasciarla sopravvivere e servirsene come una specie di ammortizzatore sociale per far fronte alla disoccupazione intellettuale.
Sarebbe tuttavia ingiusto scaricare ogni responsabilità delle inefficienze attuali sul Movimento 5 Stelle e sulla ministra Azzolina, quest’ultima anch’essa vittima, in un certo senso, di uno stato di cose che si è accumulato nei decenni e certo non la sola responsabile dei guasti che sono sotto gli occhi di tutti. Certo avrebbe potuto agire con maggiore tempestività, dimostrare più energia ed in ultimo evitare le infelici dichiarazioni sulla possibilità di una grande riforma come risposta all’emergenza.
In realtà da almeno 50 anni la scuola è uscita fuori dalle preoccupazioni prioritarie dei governi della Prima e Seconda Repubblica e dopo i tonfi delle mancate riforme progettate dai ministri Berlinguer (1996-2000) e Moratti (2001-2006) più nessuno ha avuto il coraggio di mettere seriamente mano e cioè di potenziare il sistema dell’istruzione e della formazione italiana. Ci ha provato Renzi nel 2015 con la cosiddetta Buona Scuola, ma senza troppa fortuna.
Se oggi il 40 per cento delle scuole italiane è fuori norma è perché per decenni non si è investito un euro nella manutenzione e se un quarto degli istituti produce risultati scadenti è perché invece di prendere atto dei risultati dei test Invalsi molti insegnanti (non tutti, per fortuna) hanno preferito soltanto protestare «contro», anziché interrogarsi sul perché dei risultati insoddisfacenti. Un tentativo sperimentale (si noti: sperimentale) per individuare i docenti più preparati avviato qualche anno fa è miseramente fallito per l’invincibile resistenza corporativa dei sindacati. E ancora: cosa è stato fatto per limitare il fenomeno dei 2 milioni di giovani tra i 18 e i 25 anni che non studiano e non cercano lavoro? Non sono che alcuni esempi che documentano lo sfilacciamento del sistema scolastico italiano.
Una voce allarmata si è ora levata dagli ambienti del mondo della borghesia imprenditoriale dove alta è la preoccupazione che lo scadimento scolastico abbia funeste conseguenze sulla preparazione del cosiddetto «capitale umano» che costituisce la prima e principale risorsa di qualsiasi attività produttiva. Questa legittima preoccupazione non può, tuttavia, essere disgiunta da una più ampia riflessione sul ruolo della scuola nelle nostre società attraversate da eccessi di individualistico consumo del web, intolleranze razziste, diseguaglianze sociali oltre che da quella che in generale si definisce la povertà educativa. La scuola può restare insensibile al bisogno educativo esteso anche ai comportamenti sociali?
L’allarme lanciato nel 2008 da Papa Benedetto XVI in un celebre discorso alla diocesi di Roma sull’emergenza educativa e le proposte della Conferenza episcopale italiana avanzate in un volume del 2012 sono restate purtroppo voci isolate e senza un reale seguito, guardate talora con qualche sospetto da quelle componenti della società italiana che ancora temono, come nell’Ottocento, le interferenze della Chiesa nella vita scolastica (per averne la controprova basta considerare le tribolate e mai concluse vicende della legge sulla parità scolastica).
Se non si uniscono le forze e non si guarda alla scuola e all’educazione come al più importante investimento futuro il rischio è quello di andare verso una generazione male attrezzata, culturalmente ed eticamente, ad affrontare le durissime sfide del futuro.