Professor Conte, dov’è finita la scuola? Il silenzio del Governo

Intervento – Nel discorso di programma pronunciato dal premier Conte davanti alle Camere non c’è traccia di scuola, università, cultura. Giorgio Chiosso si interroga sulle ragioni di questo sorprendente silenzio. La scuola non è più un tema  strategico per l’Italia?

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destato una certa sorpresa scoprire che nel programma di governo illustrato nei giorni scorsi in Parlamento dal presidente del consiglio Giuseppe Conte non c’è spazio per la scuola, per l’Università, per la cultura in genere. Forse è la prima volta dal dopoguerra in poi che un governo non dà rilievo alle tematiche culturali e alle questioni riguardanti la formazione delle giovani generazioni. Inutile sottolineare che esse sono vitali per qualsiasi Paese: si investe oggi in cultura e formazione per creare un futuro migliore domani.

Non basta invocare una politica post ideologica (come suggeriscono in specie i M5S) per sfuggire a una riflessione seria su cosa rappresentano o dovrebbero rappresentare la scuola e la cultura nella vita di un Paese. La scuola, per esempio, è principalmente apprendimento oppure è anche formazione civica, la scuola è un terreno riservato ai docenti o appartiene anche alle famiglie, la scuola deve orientarsi verso una precoce professionalizzazione oppure prima di tutto educare persone capaci di scegliere, come comporre inclusione e meritocrazia? Sono queste alcune delle domande attualissime che appartengono alla quotidianità della vita scolastica e che meritano la massima attenzione.

Sulle ragioni di queste vere e proprie ‘non scelte’ si possono fare, nel silenzio dei protagonisti, soltanto alcune congetture. La prima, e forse la più scontata, è probabilmente legata alla cattiva sorte toccata al governo Renzi, che, nonostante l’impegno rivolto al versante scolastico con finanziamenti cospicui, l’assunzione di circa 100 mila docenti ex precari e il tentativo di introdurre nel sistema d’istruzione alcuni elementi innovativi (potenziamento del ruolo del dirigente, premialità per i docenti più bravi, bonus studenti, alternanza) ha raccolto, come noto, più reazioni negative che consensi. È credibile che i nuovi protagonisti della scena politica italiana abbiano optato per restare alla larga da un territorio impervio e lasciare le cose come sono senza prevedere ulteriori interventi.

Non bisogna, inoltre, dimenticare che il governo giallo-verde nasce con obiettivi scanditi da gravi emergenze come situazione economica, disoccupazione, povertà, immigrazione. Fin dalla campagna elettorale era evidente che la questione scolastica era al di fuori dell’orizzonte primario dei principali partiti. Poiché non si può fare tutto è ragionevole concentrarsi sulle questioni che sembrano più urgenti. Questa constatazione non esclude di notare che in alcuni casi (si veda, ad esempio, la disoccupazione giovanile) c’è un rapporto diretto tra le politiche dell’istruzione, la formazione professionale e l’occupabilità.

Ma accanto a queste motivazioni, entrando nello specifico scolastico, va richiamata una forse decisiva ragione strategica sui silenzi in questo ambito e cioè la difficile armonizzazione di due diversi modi di guardare all’istruzione. Nel M5S è prevalente l’opzione centralista. Soltanto lo Stato, secondo i seguaci di Beppe Grillo, avrebbe la forza di combattere dispersione e mediocrità della formazione. Tutte le risorse andrebbero perciò orientate a potenziare l’iniziativa statale, comprese scelte didattiche che dall’alto orientino l’azione dei docenti e la dilatazione degli organici per debellare in via definitiva i residui precari. In coerenza con l’impianto statalista sono orientate non casualmente le polemiche tirate grilline contro le scuole non statali e la proposta di riordinare tutte le tipologie di valutazione.

La Lega è invece molto più attenta al rapporto scuola/territorio nella prospettiva di una regionalizzazione scolastica con relativo smagrimento dello Stato: Lombardia e Veneto, ad esempio, sono già oggi le regioni ove più forti sono le istanze localistiche e ove più diffuso risulta il pluralismo scolastico, sia nel rapporto pubblico-privato sia in relazione all’intreccio tra scuola e formazione professionale. Particolare attenzione la Lega riserva al rapporto tra scuola e lavoro (mentre il M5S auspica la soppressione dell’alternanza scuola/lavoro), al reclutamento su base locale dei docenti e ai servizi educativi (asili nido, scuole dell’infanzia, sostegno alla disabilità) che rispondono più marcatamente alle aspettative delle famiglie.

Se i due contraenti il famoso contratto hanno idee così diverse è realistico non farsi eccessive illusioni sulla possibilità di poter vedere avviate buone politiche scolastiche nell’interesse degli allievi e dei genitori, capaci di prendere le distanze dalla tradizionale e invadente complicità tra burocrazia ministeriale e interessi sindacali. E nemmeno sperare in nuovi provvedimenti normativi che, con l’intenzione di chiarire i precedenti, aumenterebbero probabilmente soltanto la confusione già insopportabile.

Forse non tutto quello che oggi appare discutibile è davvero da criticare: un po’ di tranquillità può servire alle scuole per assorbire e, se del caso, ritoccare le molte novità nel frattempo entrate a regime con la legge della «Buona scuola», senza tuttavia ricominciare tutto daccapo. La scelta del nuovo ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti (esperto uomo di scuola, dirigente ministeriale, ma certamente non depositario di una ‘sua’ idea di scuola) può essere letta in questa direzione: assicurare una buona amministrazione, non smantellare il preesistente, lavorare più in difesa che in attacco, lasciar fare alle scuole.

Secondo alcuni osservatori se davvero il ministro Bussetti si orientasse in tal senso si potrebbero creare le condizioni per rasserenare il clima scolastico. Troppi vincoli imposti dalla volontà politica di riformare a tutti i costi la scuola hanno finito per ottenere i risultati opposti a quelli preventivati. La decretazione pignola e puntuale spesso dipendente dagli orientamenti messi a punto dai grandi centri di elaborazione delle politiche dell’istruzione (Banca mondiale, Ocse, Unione europea) non è risultata sempre condizione ottimale per rendere più efficace la scuola. Ma perché questa eventualità diventi un’occasione reale (stiamo ragionando in linea puramente teorica su ciò che potrebbe accadere in presenza di un governo di ordinaria amministrazione) sarebbe comunque necessario che alcuni fondamentali passaggi finora non troppo ben digeriti dagli insegnanti diventino esperienza quotidiana, senza estremismi e senza forme critiche pregiudiziali.

Ci riferiamo in specie alle periodiche valutazioni Invalsi utili a tenere sotto controllo l’evoluzione dei livelli di apprendimento, alle azioni previste dal Sistema nazionale di valutazione (autovalutazione degli istituti e messa a punto di piani di miglioramento) e alle opportunità offerte dalle scuole non statali per sconfiggere bassi livelli di apprendimento e malessere sociale. Non resta che attendere le prime esternazioni e le prime decisioni del ministro Bussetti per capire quali sono le vere intenzioni del governo M5S-Lega.

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