Lo scorso 25 settembre è scomparso a 86 anni don Alessandro Pronzato, prete scrittore tra i più letti del Novecento. Nato a Rivalba (Alessandria) nel 1932, dal 1965 a oggi ha pubblicato 135 libri. Ironico e spiazzante, era amato da Papa Francesco. I «Vangeli scomodi» (oltre trenta tra edizioni e ristampe, una ventina di traduzioni in varie lingue) e «La nostra bocca si aprì al sorriso» sono due dei tre libri che hanno accompagnato Bergoglio, giovane sacerdote, e che il Pontefice ha donato a Fidel Castro nel suo storico viaggio a Cuba. L’ultima sua opera è «Tutti a scuola di Maria per imparare la gioia». In queste pagine pubblichiamo un ricordo di Piero Gribaudi, editore torinese e grande amico di don Pronzato.
Mi sono reso conto, riflettendo sul libro «Le frontiere della misericordia» di don Pronzato, che esso ha rappresentato il perno intorno al quale tutta la mia vita ha assunto una svolta fondamentale. Mai è risultata più vera per me la celebre frase «habent sua fata libelli». In parole povere: i libri, anche quelli apparentemente meno importanti, nascondono talora dentro di sé dei destini indecifrabili ma, o prima o poi, determinanti. Nel mio caso, se la Provvidenza non avesse suggerito a don Sandro queste pagine, se egli, tramite un’amicizia comune, quella dell’immancabile don Giovanni Barra, non le avesse offerte a me, che dirigevo allora la casa editrice Boria, io non avrei fatto l’editore. Non avrei fatto l’editore soprattutto se non fossero esistite le figure di quelle «sorelle della misericordia» che hanno suggerito, poi formato e quindi preso vita in queste bellissime pagine di brevi incisive biografie di donne eccezionali soprattutto perché «ordinarie».
Basta guardare le date. li libro ha il «nullaosta per la stampa» in data 22 luglio 1965. Uscì probabilmente a settembre di quello stesso anno. Quei mesi erano per me di grande angoscia. Avevo 32 anni. Ero dirigente di quella casa editrice Boria che cinque anni prima mi era stata affidata sull’orlo del fallimento e che in quei cinque anni avevo trasformato in un fiore all’occhiello dell’editoria cattolica giovane e rampante. Sull’onda del successo mi era stata promessa una partecipazione all’azienda, ma, con mia grande delusione, arrivati al dunque, la promessa non era stata né sarebbe stata mantenuta. Dovevo continuare una carriera controvoglia, amareggiato da una conduzione non rispondente ai miei sogni interiori più genuini oppure fare il grande salto e mettermi in proprio, affrontando da solo un campo così impervio come quello editoriale?
Fu a questo punto che sulla mia scrivania arrivò il manoscritto di un autore alle prime armi: l’autore era Alessandro Pronzato, il manoscritto quello de «Le frontiere della misericordia». L’autore e il contenuto del libro avevano una cifra identica: erano entrambi semplici e insieme profondi, privilegiavano entrambi la piccolezza e insieme l’umiltà, prediligevano non l’andamento culturale ma il respiro autentico dell’ingenuità, parlavano entrambi al cuore.
La lettura del manoscritto e la conoscenza di don Sandro mi spinsero con forza, addirittura con una certa violenza, a chiedermi: nell’impiantare da solo una casa editrice che avrebbe avuto il mio nome, che cosa cercavo in realtà? Fama personale, soldi, una rivalsa, addirittura una vendetta? No. Cercavo, anzi ricercavo daccapo quella ingenuità, semplicità e libertà nelle quali ero stato educato nell’infanzia; volevo esprimerle in modo personale, peculiare, sino in fondo, pagando di persona in tutti i sensi e puntando su persone che, anche se non note, avessero cose da dire, pensieri umili ed elevati, intinti nelle viscere interiori. E ancora non sapevo che don Sandro stava lavorando ad un altro libro dal magnifico titolo «Ma io vi dico» e ad un altro ancora dall’altrettanto emblematico titolo «Vangeli scomodi», il libro ancor oggi, dopo anni infiniti, preferito da Papa Francesco.
Potevo contare, in questa prima fase del mio lavoro, soltanto su un uccellino, una formica e un’ape: l’uccellino era mia moglie, che con la sua operosa levità mi affiancò in tutti i lavori più modesti con inalterabile letizia, scioltezza spirituale, canto dell’anima; la formica fu don Giovanni Barra, sempre alla ricerca del seme fecondo, prezioso magazziniere di idee, progetti, suggerimenti; ma più importante di tutti e tre, l’ape don Pronzato, operoso distillatore di un miele che fu subito gradito da un pubblico stufo di libri stopposi, saccenti, aridi o superficiali, un pubblico che trovava finalmente in lui non tanto una parola nuova ma un cuore nuovo.
E’ proprio vero: se per più di cinquant’anni don Sandro, che pure ha scritto tonnellate di libri, ed io, che di suoi libri ne ho pubblicati a centinaia, siamo stati profondamente legati da un’amicizia semplice e forse complessissima, lo dobbiamo alla estrema semplicità e totale abbandono con cui ci siamo sempre tenuti per mano, con immensa reciproca fiducia.
Un pudore immenso e incomprensibile ha rivestito, fasciato e avvolto don Pronzato. Un pudore che è infinite cose: consapevolezza semplice e serena dei propri limiti, soprattutto di quelli che non aveva; dispiacere, pena e rammarico per ogni forma di invidia e malevolenza da parte altrui e incapacità direi quasi infantile di provarne i morsi. Estraneità ad ogni mondo che sia apparenza, ad ogni rumore che non sia suono, ad ogni parola che non sia sostanza, ad ogni realtà che non suggerisca il Sogno con la maiuscola.
Chi voglia conoscere qualcosa di quest’uomo a me carissimo ma obiettivamente sesquipedale, nel senso di enorme, non misurabile e quindi non definibile, dovrebbe leggere il suo «Stelle sul mio cammino», da lui scritto in occasione del 50° del suo sacerdozio. Tali «stelle» sono una cinquantina di persone che, egli dice, negli anni gli sono state amiche e che egli descrive con entusiasmo, acume e bontà. Chi legge queste pagine ha una sorpresa: oltre che godersi una galleria di ritratti di persone note o meno note, tutte comunque con una loro singolarità, può gustarsi appieno un formidabile autoritratto dell’autore, la cui ingenuità, sincerità e generosità hanno qui modo di esprimersi con tutti i loro colori e le loro mille sfumature.
Egli queste persone (tra le quali il sottoscritto) le chiama le «stelle» che hanno dato un senso alla sua vita. E, con questo libro, le ringrazia. E per tutte ed ognuna lui ha un profondo moto di simpatia, di amicizia, di riconoscenza, lui. Su tutte diffonde una sorta di polvere d’oro, lui. Ed è palpabile che ad esse ha dato tanto di se stesso, lui. Sottolineo «lui» perché bisogna essere degli ingenui patentati o degli invasati di sé (cosa che per don Pronzato era da escludersi nel modo più assoluto) per supporre che ben cinquanta persone, di statura a volte internazionale, ti abbiano capito, amato, accettato e aiutato. Oltre alle cinquanta, poi, viene menzionato in forma più concisa un altro centinaio di nomi ossequiato e benedetto. Che tu debba gratitudine a questo foltissimo plotone ti fa onore, denota una tua sensibilità speciale, dice di te molto più di quanto tu non creda. Ma è anche segno di una ingenuità colossale, non so se mi spiego, di una bontà illimitata e di una generosità oltre ogni steccato. Ecco l’uomo.
Quanto ad ingenuità, l’ingenuità di don Sandro era limpida. Altre trascinano con sé sedimenti inconsci che ne indeboliscono la trasparenza. La sua vedeva attraverso le montagne, entrava nelle anime e le risciacquava. L’ingenuità di don Sandro era forte ma non risoluta, bensì sovrana o, per usare un termine meno aristocratico, pacifica e pacificante. L’ingenuità di Sandro era indifesa. Egli avrebbe voluto che non lo fosse, la avrebbe desiderata un po’ più combattiva, fonte di una goccia di arroganza e persino prepotenza; ma non poteva. Alla fine è lei che ha capitolato, è lei che, da vittima, si è fatta dispensatrice di bontà. Ed è strano che molti, soprattutto nel clero (forse un clero che sta scomparendo), abbiano sentito nei temi e nella scrittura di questo autore un atteggiamento critico asprigno, beffardo o addirittura inclemente.
È proprio vero che nulla ferisce quanto l’umorismo unito alla bontà. Perché se lo humour di don Pronzato fosse stato lapidario e lapidatore forse sarebbe stato, da alcuni, più tollerato perché afferrabile e quindi deprecabile. Ma l’humour di Sandro era osservazione attenta della realtà umana vissuta con sorriso, mai con astio o risentimento. Era di tipo manzoniano. L’altra caratteristica di Pronzato era la sincerità, che è un gradino al di sopra della trasparente ingenuità. Qui stava forse il suo segreto più semplice ma anche più tipico. E’ difficile essere sinceri, soprattutto scrivendo. Don Pronzato, sincero in tutto, sincero sempre, soprattutto quando non si accorgeva di esserlo, era sincero specialmente scrivendo, quasi che il consegnare se stesso agli altri esigesse da lui una nudità totale, senza la quale avrebbe provato vergogna, non solo, ma una sorta di blocco, sia interiore che espressivo.
Ho letto, centellinato ed anche esaminato migliaia di pagine di questo sacerdote. Credo, forse immodestamente, di saper cogliere con una certa facilità il momento, il punto, in cui uno scrittore mente, direi quasi non può non mentire, per semplice stanchezza, assuefazione all’argomento, abitudine. Nelle pagine di don Sandro non sono mai riuscito a cogliere la minima pausa insincera, il minimo momento cioè in cui scrivesse al di là di se stesso, scavalcandosi inconsciamente. Mai. Ha sempre scritto ben dentro se stesso, nel più profondo della sua anima.