Il vizio della Russia: soffocare la libertà
La Seconda guerra mondiale finisce nell’agosto 1945 con le atomiche sganciate dagli Stati Uniti sulle giapponesi Hiroshima e Nagasaki. Dall’immane conflitto l’Europa esce a pezzi e la Germania smembrata. L’Unione Sovietica, sotto il tallone di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, ex-seminarista ortodosso detto «Stalin, uomo d’acciaio», occupa l’Europa centro-orientale: Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania Orientale, Polonia, Romania, Ungheria assaggiano il «soccorso» dei carri armati sovietici. Il 5 marzo 1953 al Cremlino muore il tiranno Stalin: con deportazioni, purghe, carestie, lavori forzati stermina 20-60 milioni di persone. Palmiro Togliatti – che i comunisti nostrani dicevano «il migliore» – è un complice di Stalin e non muove un dito per salvare i «compagni». Anzi esalta «un gigante del pensiero e dell’azione: con il suo nome verrà chiamato il secolo intero». Il socialista Sandro Pertini lo commemora in Parlamento: «Ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto. L’ultima sua parola è stata di pace. Si resta stupiti per la grandezza che la morte pone nella giusta luce. Uomini di ogni credo, amici e avversari, riconoscono l’immensa statura. È un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto»… Infatti.
I moti operai nella Germania dell’Est scoppiano nel giugno 1953 quando uno sciopero dei manovali edili si trasforma in una rivolta contro il governo della DDR. I tumulti sono repressi con la forza dalle forze sovietiche in Germania. In maggio il Partito socialista innalza le quote di lavoro dell’industria del 10 per cento. Il 16 giugno una sessantina di edili iniziano a scioperare quando i capi annunciano un taglio di stipendio in caso di mancato raggiungimento delle quote. La protesta dilaga in tutta la Germania Est. Le richieste sindacali diventano politiche: i lavoratori chiedono le dimissioni del governo, che si rivolge a Mosca. Per Google-Wikipedia «ci furono 5.000 arresti. Ancora oggi non è chiaro quante persone morirono nelle sollevazioni e per le condanne a morte. Il numero ufficiale è di 51 vittime. Dopo l’analisi dei documenti accessibili dal 1990, il numero di vittime sale a 125».
I comunisti di allora e Putin oggi sono maestri di propaganda e menzogna. Nel 1956, dopo il XX congresso del Pcus – nel quale il segretario Nikita Kruscëv denuncia i crimini di Stalin – nell’Europa orientale i popoli si rivoltano e chiedono libertà e democrazia. In Ungheria il 23 ottobre 1956 una gigantesca manifestazione invade Budapest e ottiene un governo guidato dal comunista riformatore Imre Nagy. L’Urss il 4 novembre invia l’Armata rossa. Palmiro Togliatti, segretario del Pci, appoggia Mosca e l’«aiuto fraterno» dei sovietici; bolla i «fatti di Ungheria» come un tentativo controrivoluzionario; mette il comunismo sopra tutto sulla base del principio: «Si sta con la propria parte anche quando sbaglia». Documenti provano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che «il migliore» sollecita l’intervento sovietico. All’insaputa degli altri dirigenti comunisti il 30 ottobre 1956 scrive al Comitato del Partito comunista sovietico: «Ci sono diffuse preoccupazioni che gli avvenimenti polacchi e ungheresi possano lesionare l’unità della direzione collegiale del vostro partito, che è stata definita al XX Congresso. Se ciò avvenisse, le conseguenze potrebbero essere molto gravi».
Alla prima Conferenza mondiale dei Partiti comunisti, novembre 1957 a Mosca Togliatti vota, con gli altri capi, per la condanna a morte dell’ex presidente del Consiglio ungherese Imre Nagy e del generale Pál Maléter, ministro della Difesa, con l’accusa di aver aperto «la strada alla controrivoluzione fascista». Ma prega di rinviare l’esecuzione a dopo le elezioni politiche italiane del 25 maggio 1958: l’invito è accolto e Nagy è impiccato il 16 giugno 1958. Togliatti esalta Urss «intervenuta, con tutta la forza, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uovo, nel nome della solidarietà tra i Paesi del socialismo». A Pietro Ingrao, che gli confida il suo turbamento e gli dice di non aver dormito la notte, «il migliore» risponde: «Io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più».
Il giornale del Pci «l’Unità» definisce gli insorti «teppisti, spregevoli provocatori, fascisti, nostalgici»; giustifica l’intervento delle truppe sovietiche; sostiene che si tratta di un elemento di «stabilizzazione internazionale» e di un «contributo alla pace nel mondo». Orfeo Vangelisti, corrispondente da Mosca del giornale comunista, descrive: «Gruppi di facinorosi, seguendo un piano accuratamente studiato, hanno attaccato la sede della radio e del Parlamento. Gruppi di provocatori in camion hanno lanciato slogan antisovietici incitando a un’azione controrivoluzionaria. In piazza Stalin i manifestanti hanno tentato di abbattere la statua di Stalin. L’intervento sovietico è un dovere sacrosanto senza il quale si ritornerebbe al terrore fascista. Le squadre dei rivoltosi sono composte prevalentemente da giovani rampolli della aristocrazia e della grossa borghesia».
Luigi Longo sostiene la tesi della rivolta imperialista: «L’esercito sovietico è intervenuto in Ungheria allo scopo di ristabilire l’ordine turbato dal movimento che aveva lo scopo di distruggere e annullare le conquiste dei lavoratori». Per Umberto Terracini «l’intervento sovietico non può che trovare unanime appoggio e solidarietà in tutti i veri democratici italiani». Anche Giorgio Napolitano condanna gli insorti «controrivoluzionari», ma poi parla del suo «grave tormento autocritico».
La sollevazione (23 ottobre-11 novembre 1956), repressa dai carri sovietici provoca 4.000 morti, migliaia di feriti, 250 mila ungheresi fuggiti in Occidente.
József Mindszenty, cardinale arcivescovo di Ezstergom-Budapest e primate d’Ungheria, è perseguitato tutta la vita. Arrestato nel 1919 dai comunisti; imprigionato dai nazisti nel 1944-45; ri-arrestato dai comunisti nel 1948, è un simbolo da abbattere con torture e umiliazioni, botte e droghe. L’8 febbraio 1949 è condannato all’ergastolo: sfinito, sottoscrive l’accusa di cospirazione con la sigla «CF, coactus feci, firmai costretto». Otto anni di carcere. Durante la rivolta i patrioti lo liberano e si rifugia nell’ambasciata statunitense. Paolo VI e Agostino Casaroli inaugurano una politica conciliante con l’Est, ma egli si oppone a ogni trattativa e rifiuta di espatriare: nel 1971 lascia l’ambasciata. Paolo VI gli chiede di dimettersi, Mindszenty rifiuta e Papa Montini lo dimissiona di brutto. Muore a Vienna nel ’75 e nel 2012 è riabilitato.
Il nazismo dura 12 anni (1933-1945); il fascismo 23 anni (1922-1943, più la Repubblica sociale di Salò 1943-45); il comunismo in Unione Sovietica e nell’Europa centro-orientale 72 anni (1917-1989); in Cina il comunismo dura dal 1949 (oltre 70 anni); in Laos, Vietnam e Cambogia dal 1975.
Il vizio della Russia: soffocare la libertà
La notte del 12-13 agosto 1961 inizia la costruzione del muro di Berlino, 155 chilometri: divide la città in due fino al 1989, tirato in piedi tra mezzanotte e l’alba di un fine settimana d’estate da migliaia di soldati tedeschi e russi che piazzano tonnellate di filo spinato e che interrompono tutti i collegamenti: alle 6 sono chiuse 200 strade, una sessantina di incroci e 12 stazioni ferroviarie.
Lo costruisce la Repubblica democratica tedesca, alleata dell’Unione Sovietica, per separare Berlino Est da Berlino Ovest, amministrata da Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Tra il 1949 e il 1961 milioni di tedeschi orientali fuggono dal «paradiso comunista» e affluiscono a Berlino Ovest, attratti da maggiori libertà e da migliori condizioni di vita. Ma gli oligarchi, ieri come oggi, sono tutti uguali. La sera del 12 agosto Walter Ulbricht, capo-dittatore della Ddr, invita i membri del governo nella sua villa su un lago a 80 chilometri da Berlino, a mangiare e bere. All’Esercito arrivano scatole chiuse con l’ordine di aprirle solo alle 20: dentro ci sono 150 tonnellate di filo spinato. Tra mezzanotte e l’una, 40 mila soldati creano due linee di sicurezza intorno al confine per bloccare il passaggio di veicoli e persone e lasciano aperti 13 posti di blocco. All’una di notte si spengono i lampioni e inizia la costruzione del muro con enorme dispiegamento di forze: Esercito, Polizia, membri delle «Betriebskampfgruppen, milizie dei lavoratori».
Sette anni dopo, il 21-22 agosto 1968 la Cecoslovacchia è occupata dai russi, Dubcek e il governo arrestati, la Camera è invasa. «La stampa» esce con un editoriale eloquente «I nemici della libertà». Così tutti i giornali. All’alba del 21 agosto 1968 la Cecoslovacchia trema al rombo sferragliante dei carri armati sovietici e dei Paesi comunisti «fratelli» che a macchia d’olio la invadono e la occupano: 220 mila uomini – 200 mila russi e 20 ventimila dei «satelliti» del Patto di Varsavia – e 5 mila carri armati. Spengono la «primavera di Praga» iniziata il 5 gennaio con la salita al potere del riformista slovacco Alexander Dubcek. Segretario del Partito comunista cecoslovacco, promuove il «socialismo dal volto umano». A marzo il Comitato centrale parla di «democratizzare il sistema» e di libere elezioni e abroga la censura. I giovani hanno fretta. L’inattesa libertà li ubriaca: «Tre mesi fa bastava prendere in mano un gessetto per finire in prigione».
Le «mummie» del Cremlino non sono affatto contente: Leonid Breznev, onnipotente segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica e capo supremo; Michail Andreevic Suslov, secondo segretario del Comitato centrale del Pcus, numero due, arcigno custode dell’ortodossia comunista; Aleksej Nikolaevic Kosygin, primo ministro. Breznev chiama affettuosamente «il nostro Sasha» Dubcek – la parola «dubcek» in russo vuol dire «piccola quercia» – che parla correttamente il russo perché è vissuto in Urss 13 anni. Il 3 agosto 1968 a Bratislava si consuma il tradimento: Dubcek incontra Breznev e Suslov e pensa di aver allontanato il pericolo. Invece gli uomini dagli occhi gelidi hanno già deciso di cedere la parola ai carri armati e Dubcek non lo sa. E dire che Lenin sosteneva: «È impossibile un conflitto tra due Paesi socialisti».
I russi incontrano una resistenza più tenace del previsto. Contro i cannoni i giovani sventolano le bandiere. Migliaia di manifestini gialli i inondano le strade della Cecoslovacchia con i «dieci comandamenti del cittadino cecoslovacco»: «1) Non tradirò mai l’idea della democrazia, della libertà, della sovranità e del socialismo umanitario; 2) Riconoscerò il generale Ludwig Svohoda come presidente e Alexander Dubcek come capo del Comitato centrale; 3) Non seguirò i consigli di altre persone; 4) Non mi darò pace finché non avrò scoperto chi attenta alla sovranità della mia Patria; 5) Non dimenticherò questo colpo di forza ipocrita; 6) Vigilerò per essere informato di negoziati che riguardano il mio Paese; 7) Sarà mio alleato o amico solo chi riuscirà a convincermi con le sue azioni; 8) Risponderò con calma, decisione e buon senso a qualunque violenza; 9) Rimarrò un uomo degno, anche se altri mi negano questa dignità; 10) Non dimenticherò né la Montagna bianca (rivolta dei praghesi soffocata nel sangue nel 1620, n.d.r.) né il 15 marzo 1939 (le truppe di Hitler invadono la Cecoslovacchia, n.d.r.) né il 21 agosto 1968».
Simbolo della resistenza è il ventenne Jan Palach, studente di Filosofia all’Università Carlo IV di Praga: il 16 gennaio 1969, per protesta, si brucia in piazza San Venceslao. Arrestato e portato in Urss, Dubcek viene reinsediato a condizione che imponga di nuovo il comunismo senza «se» e senza «ma». Nel 1969 si dimette da segretario ed è eletto presidente del Parlamento. A dicembre è inviato ambasciatore in Turchia. Espulso dal partito nel 1970, si guadagnerà da vivere come guardia forestale. La sinistra italiana è spiazzata e si divide: il Pci condanna l’invasione sovietica; il Partito socialista di unità proletaria (Psiup) la esalta.
Papa Paolo VI esprime subito dolore e protesta. All’udienza generale di mercoledì 21 agosto1968 si rivolge a un gruppo di cecoslovacchi: «Apprendiamo dalla lettura dei giornali che gravi avvenimenti incombono sulla Cecoslovacchia e suscitano grande trepidazione nel nostro animo, che condivide quella che invade tutta la Nazione e turba l’opinione pubblica del mondo. Vogliamo sperare che siano scongiurati conflitti di violenza e di sangue e che non sia offesa la dignità e la libertà di un popolo geloso dei suoi destini. Facciamo voti che la saggezza prevalga su ogni motivo di conflitto e che la pace possa essere assicurata alla civile convivenza». Mons. Pasquale Macchi, segretario di Papa Montini, nel bel libro «Paolo VI nella sua parola» racconta che «erano allora frequenti gli incontri del Papa con i pellegrini cecoslovacchi: alle sue parole di saluto e conforto, si notava la loro commozione e si percepiva quasi una particolare intesa. In lui ritrovavano la speranza, nonostante le sofferenze e l’impossibilità di vivere la libertà religiosa e civile. Una volta una bambina si staccò dal gruppo e si gettò tra le braccia del Papa: sembrava che la Nazione si affidasse alla paternità di Paolo VI».
Il 14 febbraio 1969 il Papa presiede in San Pietro la commemorazione dell’XI centenario della morte di San Cirillo patrono, con il fratello Metodio, dei popoli slavi. Paolo VI si rivolge ai pellegrini cecoslovacchi: «Dite ai vostri connazionali che il Papa li ama, li ricorda, li affida nella preghiera, alla protezione della gloriosa Madre di Dio e all’intercessione dei Santi Cirillo e Metodio». È presente il cardinale Giuseppe Beran. Perseguitato dai nazisti, sopravvive al lager di Dachau; arcivescovo di Praga dal 1946, è arrestato nel 1949 dai comunisti e, senza processo, è privato di ogni diritto e isolato dal mondo. Il 25 gennaio 1965 Paolo VI lo crea cardinale. Questo costringe i comunisti a liberarlo, a condizione che non torni più in patria. Mons. Agostino Casaroli, «ministro degli Esteri» vaticano, a Praga incontra Beran e il suo successore Frantisek Tomasek: in un colloquio in silenzio e per scritto nel timore di microfoni nascosti, Beran, per il bene della Chiesa, cede e lascia la sua terra. Montini lo riceve in Vaticano e gli esprime riconoscenza per la sua coraggiosa difesa della fede e la ferma adesione alla sede di Pietro.
La libertà sconfigge la tirannide
Trentatré anni fa, il 9 novembre 1989, sotto i colpi dei berlinesi e gli sguardi attoniti dei «vopos» della Repubblica Democratica Tedesca, della polizia segreta Stasi e dei «cugini» del Kgb – tra cui il tenente colonnello Vladimir Putin – comincia a cadere a pezzi il Muro di Berlino, a crollare il comunismo in Europa, a squagliarsi l’Unione Sovietica, ad avviarsi la riunificazione tedesca. Neppure un mese dopo, il 1° dicembre 1989, Michail Gorbaciov, presidente dell’Urss e segretario del Partito comunista, visita Giovanni Paolo II in Vaticano.
LA FINE DI UN’EPOCA – La caduta del Muro è la fine del Novecento, secolo di due orribili guerre mondiali e delle più brutali dittature: comunismo, fascismo, nazismo. Crolla la «barriera di protezione antifascista» che, per 28 anni, spacca in due Berlino, la Germania e l’Europa, simbolo della «guerra fredda» – espressione inventata su «Tribune» il 19 ottobre 1945 dal giornalista e scrittore inglese George Orwell – che intossica i due blocchi, separati dalla «cortina di ferro» da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico. Il teologo e giornalista Gianni Gennari racconta il suo soggiorno berlinese: «Come sempre i muri, quando non sono quelli di casa, uccidono. Di notte sentivo il crepitio delle armi per impedire le fughe e di giorno correvo qualche rischio con il mitra dei Volkspolizist spianato in faccia».
IL COMUNISMO DOMINA L’EUROPA – La guerra finisce nell’agosto 1945. Dall’immane conflitto l’Europa esce a pezzi; la Germania sconfitta, smembrata, umiliata; l’Unione Sovietica occupa Europa centro-orientale, Germania e Berlino Est. Gli occidentali si dividono Berlino Ovest. Vige l’equilibrio del terrore atomico tra Occidente (Usa e Paesi Nato) e Oriente (Urss e Paesi del Patto di Varsavia). Il comunismo soffoca Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania orientale, Polonia, Romania, Ungheria. In Jugoslavia il tiranno Josip Broz Tito tiene insieme con lo sputo Paesi diversissimi e popolazioni ostili. Il dèspota marxista-leninista Enver Hoxha soggioga l’Albania. Mosca sigilla gli accessi di Berlino (1948-49); Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, con un ponte aereo di «Rosinenbomber, bombardieri d’uva passa», trasportano viveri, carbone, medicinali. Incrociano le braccia 300 mila operai di Berlino Est (1953): «Siamo lavoratori, non schiavi». Al grido «Pane e libertà. Via i comunisti» gli operai di Poznan in Polonia (1956) insorgono: la rivolta è repressa dai carri armati del generale sovietico-polacco Konstatin Rokossovsky. La sollevazione in Ungheria (1956) è stroncata dai sovietici: 4.000 morti, migliaia di feriti, 250 mila fuggiti in Occidente. Nel 1949 l’immensa Cina cade in mano al comunista Mao Tze Tung, «quattro volte Grande, Grande maestro, Grande capo, Grande comandante supremo, Grande timoniere».
SPALLATE AL MURO – I 160 chilometri di cemento armato e filo spinato con la corrente, i cecchini armati, i bunker, la «striscia della morte», i «checkpoint Charlie, Alpha e Bravo» rappresentano, dal 13 agosto 1961, una barriera (quasi) invalicabile che divide lo sposo dalla sposa, il fratello dalla sorella, i genitori dai figli, gli amici dagli amici. Il presidente americano John Fitzgerald Kennedy il 26 giugno 1963 si affaccia sul Muro e proclama: «Ich bin ein Berliner. Io sono un berlinese»; il 13 settembre 1964 il pastore battista Martin Luther King rivendica: «Qui a Berlino ci sono figli di Dio da tutte le parti del muro e nessun confine costruito dall’uomo potrà mai cancellarlo». Il 12 giugno 1987 alla Porta di Brandeburgo il presidente Usa Ronald Reagan invita Gorbaciov: «Abbatta questo muro».
VLADIMIR PUTIN, 37ENNE TENENTE COLONNELLO, dirige il KGB a Dresda nella Germania Est e i capi moscoviti lo giudicano «disciplinato, scrupoloso e carismatico». Diventerà il dittatore-zar della Russia. Mentre il Muro cade, Putin è occupato notte e giorno a distruggere dossier, a cancellare le tracce di tutte le comunicazioni, a bruciare documenti nella sede del Kgb. «Avevamo talmente tanta roba da mettere nel fuoco – racconterà – che a un certo punto la stufa scoppiò». I patrioti assaltano gli uffici della Stasi, arriva la volta della sede del Kgb. Racconta Fabrizio Dragosei, storico corrispondente del «Corriere della Sera»: «Una folla enorme si assiepò davanti alla palazzina che ospitava i sovietici e si fermò solo perché il giovane colonnello dei servizi segreti uscì fuori e minacciò di usare le armi. La vita dorata di Vladimir Putin, numero due del Kgb a Dresda, pagato parte in dollari e parte in marchi, stava per finire. In Germania Est Putin era arrivato nel 1985, mentre Gorbaciov dava inizio alla “perestrojka”».
«ERA COME L’UNIONE SOVIETICA DI TRENT’ANNI PRIMA, un Paese totalitario», racconta Putin. Totalitario ma ricco. Al posto delle file interminabili per qualche salsiccia, c’era ogni ben di dio. «Nei fine settimana ce ne andavamo sempre in giro per la Sassonia» racconta la signora Lyudmila Putin. «Vladimir – aggiunge Dragosei – il venerdì sera andava sempre a farsi una birra, tanto che mise su 12 chili. Si occupava di “spionaggio politico»: reclutare fonti, ottenere. analizzare e trasmettere informazioni a Mosca. A Dresda c’era un’importante fabbrica elettronica, e Putin teneva d’occhio gli stranieri che andavano a visitarla. Si dice, ma lui non l’ha mai confermato, che poco prima della caduta del Muro, ebbe il compito di assoldare una rete di agenti che avrebbero dovuto fungere da quinta colonna dell’Urss nella Germania riunificata. Uno di loro, un certo Klaus Zuchold, venne subito preso e confessò ogni cosa al controspionaggio della Germania occidentale. Così la “brillante” operazione di Putin andò per aria».
LA DISTRUZIONE DELLE PROVE – Su quel 9 novembre 1989, Putin ricorda: «Mi dispiaceva che l’Urss stesse perdendo le sue posizioni in Europa, però capivo che una posizione costruita sulle divisioni e sui muri non poteva durare». Nei giorni seguenti gli uomini del Kgb si preparano ad abbandonare: «Dovevamo distruggere ogni cosa, interrompere le linee di comunicazione. Solo il materiale più importante fu trasferito a Mosca». La notte del 5 dicembre la folla occupa la sede della Stasi a Dresda. La mattina dopo tutti si radunarono davanti alla palazzina di Angelikastrasse 4, dove ha sede (in incognito) il Kgb. Chiamano il vicino distaccamento militare per chiedere aiuto, ma la risposta è negativa: «Non possiamo fare nulla senza l’autorizzazione di Mosca, e Mosca tace». Conclude Dragosei: «Putin ebbe la sensazione che l’Urss non esistesse già più. Uscì fuori con la pistola in mano (lui dice che aveva a fianco un soldato armato), si qualificò come interprete e spiegò che quello era territorio sovietico. La gente rinunciò a scavalcare il muro di cinta».