Quando Torino nel 1835 fu colpita dal colera

Morbo proveniente dall’Asia – Negli anni Trenta dell’Ottocento il colera si aggira in Europa. Il 27 luglio 1835 l’epidemia si diffonde a Torino. Nella capitale del Regno di Sardegna il primo contagiato, il 24 agosto, è il barcaiolo Luigi Giovanni Summa. La città allestisce quattro lazzaretti, dove portare a morire i colerosi

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Foto Ministero della Difesa - Carabinieri www.carabinieri.it

«Eleviam fra le lagrime i cuori, / Sosteniamo gli scossi intelletti! / Siam colpiti, ma non maladetti, / Man paterna è la man del Signor. / Per provarci con prova più forte, / Per destarci a più nobil costanza, / Egli ha detto ad un angiol di morte: / Tue saette raddoppia su lor». Quasi due secoli fa Silvio Pellico compone una poesia in piena epidemia di colera che devasta Torino, il Piemonte, l’Italia.

Il colera è una malattia infettiva con violente scariche diarroiche, vomito, crampi muscolari e collasso cardiocircolatorio, causata dal batterio «Vibrio colera»: in genere nasce in India nel delta del Gange, si manifesta in tutti i continenti con una mortalità in passato superiore al 50 per cento, oggi molto ridotta grazie alla medicina e all’igiene. Negli anni Trenta dell’Ottocento il colera si aggira in Europa. I governi e le autorità sanitarie soprattutto degli Stati impegnati nei traffici commerciali, come il Regno di Sardegna e il Regno delle due Sicilie, istituiscono cordoni sanitari marittimi e impongono la quarantena alle imbarcazioni. La Toscana invia medici nei Paesi europei colpiti per studiare il decorso e le misure adottate, sostanzialmente quelle prese contro la peste nei secoli precedenti.

Quando l’epidemia scoppia in Francia, il Ducato di Parma ordina di disinfettare le lettere e i pacchi provenienti da Oltralpe. Carlo Alberto ordina alle truppe di stendere un cordone sanitario terrestre da San Remo a Ventimiglia e da Cuneo a Nizza: chi viola i cordoni sanitari è punito con la morte. Si riorganizza il sistema di lazzaretti. Allora solo i ricchi con i soldi si potevano curare; i poveri finivano nei lazzaretti senza cure né assistenza. Genova, Livorno e Venezia esitano ad adottare misure drastiche per timore che blocchino i commerci e l’economia. Allora accusano l’aria malsana, la sporcizia e la cattiva alimentazione. La frammentazione dell’Italia complica le cose. I cordoni sanitari mandano in rovina le famiglie che si reggono su lavori agricoli stagionali e che non si possono muovere. Per superare i cordoni marittimi le navi devono fermarsi a distanza: un responsabile con una scialuppa si avvicina alla costa per mostrare la patente sanitaria e per assicurare che a bordo nessuno è infetto. I documenti sono prelevati con una pinza: se il bastimento è giudicato infetto o sospetto, è respinto. Lettere e documenti sono affumicati con un «suffumigio», fumo con zolfo, e immersi nell’aceto.

Il 27 luglio 1835 il cordone sanitario è violato a Nizza da qualche contrabbandiere e l’epidemia si diffonde verso Cuneo e Torino. Nella capitale il primo contagiato, il 24 agosto, è il barcaiolo Luigi Giovanni Summa che muore il 25. Da anni Torino vive nell’incubo del «Colera-morbus». Allestisce quattro lazzaretti, dove portare a morire i colerosi: presso la Dora (240 letti), in Borgo Po (80), all’ospedale San Luigi (40), all’ospedale San Giovanni vecchio (30); addestra il personale medico. Nel 1832 l’epidemia infetta la Francia. Il 1833 scorre indenne per la capitale del Regno di Sardegna. Nel 1834 il contagio raggiunge Marsiglia e Genova e nel 1835 Torino. Carlo Alberto co­stituisce una commissione sanitaria guidata dal vicario Michele di Cavour, padre di Camillo, da amministratori comunali e medici. Il vicario ordina di attivare la pulizia della città e in particolare «all’interno delle case, anditi e cortili» delle zone più popolari e povere, Borgo Dora, Borgo Po, Moschino; prescrive una stretta sorveglianza «nella somministrazione di cibi e bevande, con ispezioni alle botteghe dei pizzicagnoli, osti, acetai e lattivendoli»; ordina «che si allontanino dalla città i depositi di spazzatura, che si vigili sui postriboli nei quali esercitano le meretrici, che si trasferisca il mercato» di piazza delle Erbe (Palazzo di Città): nasce così il grande mercato di Porta Palazzo, il più esteso d’Europa.

Il colera si diffonde in Piemonte e in Italia. Il 2 agosto 1935 aggredisce Genova e dilaga a Livorno e Pisa – contagiata da alcuni livornesi in fuga -, Firenze e Lucca. A settembre un mercante genovese in barca sul Po raggiunge Adria e Chioggia. L’epidemia invade il Lombardo-Veneto, sotto l’Austria, che non aveva steso alcun cordone. Arriva a Venezia, Trieste, Dalmazia, Padova, Verona e Vicenza, Bergamo e nella primavera 1836 a Como, Brescia, Cremona, Pavia, Milano, Trentino-Alto Adige, Parma. Di nuovo il litorale ligure e Genova, Livorno, Marche, Modena, Ancona, Trani e Bari. Nel 1837 raggiunge Napoli, Stato Pontificio, Sicilia. A fine anno il contagio sembra archiviato in molte zone. Ma riprende a Napoli, Calabria, Malta, Sicilia: Cefalù, Trapani, Catania, Palermo, Siracusa. Poi Marsiglia, il Ducato di Benevento e lo Stato Pontificio. Il contagio attacca Roma, torna a Catania, Palermo, in Calabria. Solo le Isole d’Elba e la Sardegna sono risparmiate. Mediamente le città battono l’epidemia in 70-100 giorni. Non ci sono statistiche precise ma le vittime sono nell’ordine di migliaia.

Il Municipio di Torino invoca la Consolata e fa voto di erigere una statua sulla piazza del santuario. I torinesi pregano anche la Madonna della salute, nel santuario eretto in Borgo Vittoria dopo la vittoria dei sabaudi sui francesi durante l’assedio del 1706 nella guerra di successione spagnola. «Madonna della salute» per la salvezza della Patria ma anche per la «salute degli infermi»: così la invocano nell’epidemia del 1835, che ritorna attenuato nel 1884. Allo scoppio del colera il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo organizza i soccorsi; con i decurioni promuove il voto alla Consolata; apre la sua villa di Moncalieri agli orfani e ai bimbi rachitici. Per riprendersi dagli acciacchi e dalle fatiche, va con la moglie Giulia verso il Tirolo e il 4 settembre 1838 muore. Silvio Pellico, segretario di Giulia, nelle «Memorie» annota: «Nella pianura lombarda assolata dagli ultimi calori estivi una carrozza porta un malato, sua moglie e un medico. All’improvviso la tragedia. Avevano fatto poca strada quando arrivando a Chiari nel Bresciano, lo credevano addormentato ed ebbero l’orribile sorpresa d’accorgersi che non era sonno, né svenimento, ma vera agonia. Fermarono la carrozza alla casa del parroco, ebbe l’Olio santo e spirò nelle braccia della desolatissima moglie».

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