Chi conosce gli ambienti ecclesiali è ben consapevole che da alcuni decenni a questa parte la pratica religiosa è in costante flessione e che il maggior picco all’ingiù si è manifestato proprio negli ultimi anni, come un lascito (perlopiù previsto e temuto) della pandemia, che ha scombussolato le nostre vite individuali e collettive. Proprio dopo il Covid-19 circolano su questi temi le opinioni e le previsioni più diverse, frutto sovente di stime o di misurazioni parziali o locali, partendo dalle quali è difficile avere un quadro della situazione complessiva.
L’Italia religiosa, nella componente cattolica, è assai variegata. E questa disomogeneità riguarda anche la pratica cultuale ordinaria, i cui indici oscillano sensibilmente a seconda del luogo e del momento di osservazione. Come si sa, la partecipazione alla messa domenicale (pur in forte declino in tutto il Paese, come si diceva) è ancor oggi maggiore nelle campagne che nelle grandi città, così come appare più elevata nelle Regioni del Sud che nelle macro-aree del Nord e del Centro Italia. Ma oltre a ciò essa risente della vivace mobilità della popolazione sul territorio nei vari week-end dell’anno (e anche dei flussi stagionali) in una nazione ricca di seconde case, di voglia di uscire periodicamente dal proprio ambiente ordinario, di possibilità di turismo ravvicinato. Di qui, ad esempio, la percezione di chiese – in vari periodi dell’anno – perlopiù vuote la domenica in città ma più frequentate nelle località montane o marine in cui molti tendono a rigenerarsi; soprattutto quando si delineano condizioni ambientali più favorevoli ai valori dello spirito.
In un contesto sociale e geografico così movimentato, per avere un’idea dello stato della pratica religiosa in Italia occorre dunque affidarsi alle indagini svolte su ampi campioni rappresentativi della popolazione nazionale, capaci di offrire un quadro d’insieme sufficientemente attendibile e anche di far emergere le principali differenze territoriali. Non si tratta di sondaggi volanti, ma di survey scientifiche svolte da istituti demoscopici qualificati e in genere ripetute nel corso degli anni, per rilevare come si modifica la situazione nel tempo.
Rientrano in questo quadro i dati forniti dall’Indagine multiscopo dell’Istat, il cui campione è composto da oltre 20 mila famiglie e 45 mila individui residenti, che tra le varie informazioni rileva anche la frequenza con cui le persone si recano in chiesa o in un altro luogo di culto. Questi dati sulla pratica religiosa, dunque, non concernono soltanto le chiese e le messe cattoliche; ma per la particolare configurazione religiosa del nostro Paese, nel quale ancor oggi circa il 70% della popolazione dichiara un’appartenenza al cattolicesimo, sono ampiamente applicabili a ciò che succede in campo cattolico. Alla domanda dell’Istat hanno risposto direttamente i soggetti con più di 14 anni, mentre per i minori dal 6 ai 13 anni la risposta è stata fornita dai genitori .
I dati più recenti riguardano il 2022 (anno perlopiù libero dalle restrizioni del lockdown) e illustrano il seguente scenario, in parte illustrato in «Settimana News» nell’agosto di quest’anno. Chi partecipa ad un rito religioso almeno una volta alla settimana (per i cattolici la messa alla domenica) è poco più del 18% della popolazione; per contro, sono assai più numerosi quanti in quell’anno non hanno mai frequentato un luogo di culto (31%), se non per eventi particolari, come i riti religiosi di passaggio (battesimi, matrimoni, funerali). Messi insieme, i «praticanti assidui» e i «mai praticanti» ammontano al 50% degli italiani, il che significa che l’altra metà della popolazione rientra in quel vasto gruppo di persone che frequenta un luogo di culto in modo discontinuo (circa una volta al mese o più volte l’anno) o occasionale (una tantum), magari nelle grandi festività.
Il dato del 2022 relativo alla frequenza settimanale ad un rito religioso comunitario è il più basso che si riscontra nella storia recente del nostro Paese. Negli ultimi vent’anni (dal 2001 al 2022) il numero dei «praticanti regolari» si è quasi dimezzato (passando dal 36% al 19%), mentre i «mai praticanti» sono di fatto raddoppiati (dal 16% al 31%). In questo arco di tempo, il trend al ribasso è stato perlopiù progressivo, di anno in anno, ad eccezione di un picco all’ingiù che si è registrato nell’ultimo periodo, che è coinciso con l’esplosione del Covid-19. In diciotto anni (dal 2001 al 2019, anno-pre Covid) i praticanti regolari sono diminuiti di poco meno di un terzo; mentre nel solo triennio (2019-2022) il loro numero è sceso del 25%.
Sia prima che dopo il Covid-19, la riduzione della pratica religiosa ha coinvolto tutte le classi di età, anche se si è manifestata in modo più marcato soprattutto nella componente ‘verde’ della popolazione, in particolare tra i giovani dai 18 ai 24 anni e tra gli adolescenti (14-17 anni). Sono questi i gruppi di età che più si sono allontanati negli ultimi vent’anni dalla pratica religiosa regolare, con un calo di oltre i 2/3 per quanto riguarda i giovani e gli adolescenti, a fronte di una riduzione del 50% dei praticanti assidui tra le persone adulte e mature e del 35-40% tra la popolazione anziana. Attualmente, dai dati Istat emerge che frequentano i riti domenicali in Italia circa il 12% degli adolescenti, l’8% dei giovani, il 17% degli adulti, il 28% delle persone con più di 65 anni. E’ la visione plastica (per quanto riguarda i riti) della stanchezza del cattolicesimo italiano, più in sintonia con gli adagi della vita che con gli allegri; composto più da corpi lenti che da corpi freschi e tatuati, più da teste bianche o calve che da teste folte o rasate.
Quali riflessioni si possono ricavare da queste indicazioni empiriche? Quella più ovvia è che l’appuntamento settimanale in un luogo di culto, per i cattolici la messa domenicale, attrae sempre di meno gli italiani, nonostante che il dato sull’affiliazione religiosa si mantenga ancora su livelli elevati. Si sta dunque stemperando l’idea che la partecipazione al culto comunitario sia per i fedeli un momento fecondo di crescita e di espressione della fede, un criterio vitale di appartenenza ad una comunità religiosa. La riflessione meno evidente riguarda invece il declino progressivo della pratica religiosa nel corso degli anni, che non si modifica nemmeno temporaneamente di fronte a nuovi eventi o situazioni religiose intercorsi nel periodo. Detto in altri termini, nemmeno la presenza a Roma di un Pontefice come Francesco (dal 2013), che tende a modificare il clima ecclesiale, sembra attenuare il trend negativo della pratica religiosa. Si tratta forse di un Papa più ammirato che seguito?
I dati Istat, inoltre, ci offrono la misura dello ‘scrollo” della partecipazione alla messa domenicale prodotto dal lockdown, individuabile (come s’è detto) nel dato medio nazionale del 25% di presenze in meno ai riti comunitari negli ultimi tre anni. Si tratta di un vuoto che sembra dovuto anche in questo caso più all’assenza degli adolescenti e dei giovani che delle persone adulte o anziane. Un trend negativo che chiama in causa la sospensione delle attività formative e della vita di oratorio dovuta agli anni della pandemia, che tuttavia si innesta su una tendenza di più lungo corso dei giovanissimi a distanziarsi anzitempo (rispetto ai coetanei del passato) da un legame religioso. Un discorso simile si può fare per la situazione dei bambini, in gran parte tornati dopo il lockdown negli ambienti ecclesiali per i corsi di catechismo e i momenti di socializzazione, una presenza tuttavia che tende a essere in vari casi disgiunta dalla frequenza ai riti comunitari.
I dati Istat qui commentati ci offrono molte altre indicazioni interessanti, come il livello della pratica religiosa che continua a essere più elevato nelle regioni del Sud che in quelle del Centro e del Nord Italia, pur in una situazione in cui, in tutte le macro aree del Paese, i praticanti regolari sono diminuiti grossomodo del 45-50% nel periodo 2001-2022. Infine, occorre notare che il calo della pratica religiosa negli anni post-Covid è una tendenza diffusa in tutti i Paesi occidentali, anche con percentuali assai superiori a quelle italiane. Ovunque si parla di «riduzione della partecipazione in presenza», di «abitudine a connettersi ai riti da remoto», di «faticoso ritorno alla normalità»; o della previsione che in questo campo «nulla sarà come prima». Non è il caso di ritenere che il «mal comune sia un mezzo gaudio», anche se è indubbio che ciò che è accaduto in questi ultimi anni rappresenti una prova vitale sia per le Chiese sia per i credenti di ogni confessione religiosa.