Quanto guadagnano i preti? E i vescovi? Li paga il Vaticano? Dove prende i soldi la Chiesa? Trionfano false notizie, luoghi comuni, informazioni infondate. Lo documenta Mimmo Muolo, giornalista di «Avvenire», in «I soldi della Chiesa. Ricchezze favolose e povertà evangelica» (Paoline): «L’opinione pubblica mette tutto in un unico calderone». Invece parrocchie, diocesi e istituti religiosi sono realtà ben distinte dal Vaticano. È bene chiarirsi le idee per la «Giornata del sostegno economico alla Chiesa» del 24 novembre 2019.
QUANTO PRENDONO I PRETI? – Da 1.008,80 euro al mese di un prete appena ordinato a 1.740,18 per un vescovo alla soglia della rinuncia; 12 mensilità, senza tredicesima, cifre lorde sottoposte a tassazione come tutti. Al netto sono da 880 a 1.400 euro. Non nuotano nell’oro. In aggiunta – secondo le diocesi – ricevono un emolumento proporzionale al numero di Messe celebrate (7-10 euro a Messa) e possono accettare soldi dai fedeli, distinguendo ciò che è offerto per il prete, per la parrocchia, per i poveri. Il calcolo dello stipendio avviene sulla base di un complicato sistema a punti. Si parte da 80 punti per tutti, cui aggiungere 2 punti ogni 5 anni e altri legati al ministero: 40 punti il vescovo, 25 il vicario generale, 10 un parroco con più di 4 mila abitanti. Altri punti a chi svolge il ministero in un territorio vasto, in zone disagiate, isolate e lontane.
MA CHI PAGA? – A settembre 2019 il Consiglio permanente Cei ha aumentato il punto (da gennaio 2020) da 12,36 a 12,61 euro (una miseria), rimasto bloccato per dieci anni (dal 2009) «come segno di partecipazione del clero alla crisi economica che grava su gran parte della popolazione». Lo stipendio del parroco o del vice deve essere pagato dalla parrocchia, quello del vescovo dalla diocesi. Tramite la cassa della parrocchia, al parroco vanno 0,0723 euro (7 centesimi) per abitante al mese: è la quota capitaria. Una parrocchia di 3.500 abitanti deve garantire al parroco 253,03 euro mensili; una di 15 mila 1.084,50. La parte rimanente, per arrivare al tetto, arriva dall’Istituto centrale per il sostentamento del clero. Se il prete ha altri redditi – per esempio stipendio di insegnante o pensione di anzianità – e se il reddito è superiore a quello cui avrebbe diritto, nulla altro gli spetta.
È UN SISTEMA COMPLICATO? – Complicato e recente (35 anni): fu introdotto dalla revisione del Concordato tra Stato e Chiesa, firmato il 18 febbraio 1984 dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal segretario di Stato cardinale Agostino Casaroli. Aggiorna il Concordato lateranense (11 febbraio 1929) alla Costituzione italiana (1948) e al Concilio Vaticano II (1965). La legge 222 del 1985 va a regime nel 1989-90. I preti non sono più stipendiati dallo Stato con il sistema «beneficiale» – in base al principio di laicità della Repubblica – ma dalla Chiesa con il sistema «comunitario».
CI SONO ALTRE FONTI DI REDDITO? – Certamente. 1) L’8 per mille è parte delle tasse pagate dai contribuenti, in base alle scelte dei cittadini, tra 12 confessioni religiose che hanno un’intesa con lo Stato. Merita ricordare che quando mons. Attilio Nicora «inventò» l’8 per mille. alcune confessioni cristiane attaccarono violentemente la Chiesa, poi anch’esse firmarono intese con lo Stato e ne usufruisono anch’esse. Tre le finalità dell’8 per mille: sostentamento del clero, esigenze di culto, opere di carità. 2) Le offerte destinate dai cittadini all’Istituto sostentamento clero, deducibili dall’Irpef fino a 1.032,91 euro. È una sorta di risarcimento per l’ingente quantità di beni confiscati dallo Stato alla Chiesa nel Risorgimento.
8 PER MILLE E OFFERTE DEDUCIBILI SONO IN CALO? – Le firme dell’8 per mille sono in calo ma ancora elevate: sono state scelte dal 76,1% dei contribuenti nel 1990; 89,8% nel 2005; 79,3% nel 2017. In forte calo le offerte deducibili da 17 milioni del 2005 a 9 milioni e 600 mila del 2017. Spiega Matteo Calabresi, responsabile Cei: «Il calo va attribuito in parte alla crisi economica, in parte agli scandali che hanno minato la fiducia della gente e al fatto che i fedeli preferiscono dare le offerte direttamente ai preti, un rapporto più caldo rispetto al conto corrente». I 35 mila presbiteri italiani – di cui 3.000 anziani e malati e 400 missionari all’estero – percepiscono lo stipendio parte dalle parrocchie, parte dai redditi personali, parte dall’Istituto. Nel 2017 furono 538 milioni che arrivarono: per 66% dall’8 per mille; 17% stipendi; 8% parrocchie; 7% redditi dei beni ex beneficiali; 2% offerte deducibili.
I PRETI NON FANNO VOTO DI POVERTÀ? – No, ma sono tenuti a una vita sobria e a un uso responsabile dei beni: possono avere un conto in banca – distinto da quello della parrocchia -; possedere beni privati; ricevere eredità. I contributi previdenziali confluiscono nel Fondo previdenza clero dell’Inps (riguarda anche i ministri degli altri culti). Il prete va in pensione con una contribuzione minima di 20 anni e a 68 anni, oppure a 65 anni e contributi di 40 anni. Il vescovo si dimette a 75 anni. Il sistema vale solo per i preti diocesani alle dipendenze di un –vescovo. Per i religiosi (e per le suore) valgono le regole dei singoli Istituti. Solo i religiosi fanno voto di povertà; non ricevono stipendio; a vitto, alloggio, abiti, libri, mezzi di trasporto, farmaci provvede la comunità. Se svolgono un lavoro esterno retribuito – insegnante, scrittore, infermiere, musicista, artigiano, operaio – non possono tenere lo stipendio ma devono versarlo nella cassa comune.
FRANCESCO RICEVE LO STIPENDIO? – Preti, vescovi e cardinali in servizio nella Santa Sede ricevono lo stipendio dal Vaticano. Francesco non riceve stipendio e ai suoi bisogni provvede il Vaticano. Anche i suoi diritti d’autore sono proprietà della Santa Sede. Nel 2019 la Chiesa italiana ha incassato dall’8 per mille 1 miliardo e 133 milioni così distribuiti dalla Cei: 384 milioni al sostentamento clero; 436 esigenze di culto (catechesi, formazione e comunicazione, la costosissima manutenzione degli edifici, Tribunali ecclesiastici); 285 alla carità in Italia e nel mondo; 27 milioni accantonati.