Quarant’anni dalla tragedia del cinema Statuto

13 febbraio 1983 – Il ricordo del dramma che colpì Torino: 64 persone morirono asfissiate per un incendio esploso nella sala affollata in via Cibrario a Torino. Le uscite di sicurezza erano sprangate dall’interno

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Il cinema Statuto dopo la tragedia del 13 febbraio 1983 (foto Anvvf - Vigili del Fuoco sezione di Torino)

Li ho scolpiti nella memoria il sindaco Diego Novelli e l’arcivescovo Anastasio Alberto Ballestrero impietriti nell’autorimessa vicina al cinema «Statuto». Osservavano quei corpi neri e raggomitolati: l’arcivescovo pregava; non so se il sindaco facesse altrettanto, ricordando i giorni trascorsi in gioventù all’oratorio salesiano San Paolo. Una scena straziante. Le salme presentavano evidenti segni, non tanto di bruciature ma di soffocamento. Per il prof. Pier Luigi Baima Bollone, medico legale del Tribunale, e il sostituto procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli «pochi sono morti a causa del fuoco A una prima valutazione, la maggior parte delle vittime è dovuta al fumo che li ha soffocati».

Era la gelida e nevosa domenica di Carnevale, 13 febbraio 1983, quarant’anni fa. Una spaventosa tragedia al cinema vicino a piazza Statuto provoca 64 morti asfissiati nell’ultimo e disperato tentativo di sfuggire alla trappola di fuoco e fumo che, con incredibile rapidità, si propagarono nel locale. «Una tragedia che colpisce tutta la città. Dobbiamo stare vicini alle vittime e ai parenti» dichiarò il cardinale Ballestrero. Una delle sciagure più atroci e di più vaste proporzioni accadute a Torino nel secondo dopoguerra. L’arcivescovo era rientrato precipitosamente in città da un incontro in una parrocchia in periferia.

Nell’ultima domenica di Carnevale, a causa dell’abbondante nevicata, i cinema torinesi erano particolarmente affollati. Allo «Statuto» per il film «La capra» c’erano 250-300 persone, giovani, sposi, fidanzati. Verso le 18,15, nella galleria esplode un incendio. In un attimo le fiamme si propagano all’arredo particolarmente infiammabile e gli spettatori non scampano alle esalazioni di poliuretano espanso prodotte dalla combustione di poltrone, lampade, tendaggi. La sala e i locali annessi, come i servizi, si riempiono di fuoco e fumo. Il panico si impadronisce degli spettatori: dalla galleria si precipitano verso le uscite di sicurezza bloccate per impedire l’ingresso ai «furbetti». Verso le 22,30 i vigili del fuoco riescono a estrarre i cadaveri sfigurati, devastati, irriconoscibili. L’autorimessa diventa una camera mortuaria.

Ricordo che quasi tutte le salme avevano braccia e mani verso il volto nel disperato tentativo di difendersi dal fumo e dal fuoco. Il gestore fu accusato di aver provocato la tragedia tenendo sprangate le porte. Una decisione fatale: se le porte fossero state aperte, il bilancio delle vittime non sarebbe stato così elevato. A tarda notte – mentre dettavo il pezzo a «L’Eco di Bergamo» – una folla di parenti urlava e gremiva via Statuto e le strade adiacenti. Fu una domenica nera: in Valle d’Aosta caddero tre cabine della funivia di Champoluc e morirono 11 persone.

Mercoledì 16 febbraio, ai funerali in Cattedrale, con il presidente della Repubblica Sandro Pertini, Ballestrero parla tra le lacrime di «mistero amaro e durissimo»; richiama le parole di Gesù «Io sono la risurrezione e la vita» (Giovanni 11,25). Visibilmente scosso, lui che solitamente dominava le emozioni. La tragedia lo aveva distrutto. Il funerale fu tesissimo per i pianti e le urla dei parenti: l’omelia toccante, macerata dal dolore e illuminata dalla fede: «Queste morti atroci ci trasmettono un messaggio che ci invita a credere più fermamente che la vita è dono, da non sciupare ma da rispettare». Si rivolse ai familiari: «I vostri cari risorgeranno e ora, nella pace di Dio, anticipano ciò che un giorno accadrà, al di là dei veli umani, quando i misteri della vita e della morte saranno pienamente svelati». Definì Torino «città emblematica. Qui confluiscono persone che cercano lavoro; cercano spazi per l’avvenire delle nuove generazioni; molti sono attratti dalla “fucina” tormentosa e viva della tecnica, della cultura, della socialità che è la nostra città».

Torino dimostrò l’insospettabile capacità dei suoi abitanti di «patire insieme», condividere il dolore, partecipare alla sofferenza degli altri. Il silenzio avvolse la città, lo sgomento scese ovunque, molta gente si raccolse spontanea e commossa attorno alle famiglie. Compostezza, dolore, raccoglimento. Per tre ore Torino piombò nel silenzio. Saracinesche abbassate, strade deserte, passanti cupi e silenziosi. Un vento gelido spazzava la città che dava l’addio a 44 delle 64 vittime. Una sofferenza acuta e una grande dignità. Mi dichiarò il vicario generale mons. Franco Peradotto: «Solo all’ostensione della Sindone del 1978 e alla visita di Papa Giovanni Paolo II nel 1980, ricordo di aver visto tanta gente». Per le altre 20 salme ci furono esequie nelle chiese della città, della cintura, al Sud.

Alla fine della celebrazione la sofferenza dei parenti esplose più acutamente; padri e madri che si buttavano sulle bare dei figli; fratelli, sorelle, parenti e amici che scoppiavano in lacrime. Accanto alla bara bianca di Giuseppina Vario, 7 anni, seguita da quelle, una accanto all’altra del papà e della mamma quasi a proteggere anche nella morte la loro bimba. Bara bianca anche per Andrea Morando, 11 anni, seguita da quella del papà Giancarlo, 40 anni. Lassù nella galleria della morte li avevano trovati abbracciati.

Raccontò Luciano Curino, «principe dei cronisti», su «La Stampa»: «Al primo posto, a fianco dell’altare in Cattedrale, il capo dello Stato Sandro Pertini ha mantenuto la promessa: “Verrò per il funerale. Non posso mancare”. A vederlo si capisce perché è il presidente più amato. Il suo dolore è quello di molti padri che fissano con occhi gonfi e rossi bare dove, tra tutti quei fiori, c’è la fotografia a colori di un bel ragazzo e di una giovane piena dl allegrezza».

L’unico effetto positivo – si fa per dire – fu la revisione delle normative nazionali in materia di sicurezza nei locali pubblici.

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