Le periferie torinesi, negli anni Settanta, erano quei luoghi dove la sera parcheggiavi senza chiudere a chiave la macchina, perché sapevi che di notte sarebbe servita a qualcuno e al mattino l’avresti ritrovata sana, qualche metro più in là. Chiuderla, era un invito a forzarla.
Allora abitavo alle Molinette, convinto di essere in periferia, finché un amico che aveva la ragazza in via Artom chiese a me di riaccompagnarla a casa in bus la sera, perché lui aveva paura. Lo facevo volentieri, non per i secondi fini che qualche lettore potrebbe fiutare, anzi, tenevo con la ragazza una conversazione sobria per non travalicare la mia parte, ma perché preso dalla sindrome dell’esplorazione come Vasco da Gama.
E così, frequentando i silos umani di via Artom, entrai in confidenza con i personaggi che avevano creato la leggenda nera di quel piccolo Bronx. Erano dialoghi senza risvolti proustiani, che passavano soprattutto attraverso il contatto concreto, e che proseguirono anche quando la ragazza di via Artom si stancò del suo amico codardo e della mia compagnia noiosa.
Incapace di interpretare la realtà sociale senza i libri, leggevo furiosamente ogni cosa riguardasse le periferie, a cominciare da Pasolini e i suoi teppisti romani, ma non trovai nulla di così elevato per Torino. Non come oggi, in cui tutti i torinesi che scrivono pagano pegno alla loro città, con preferenza alle periferie. Gli scrittori di polizieschi nostrani, in particolare, hanno costituito un nuovo genere letterario, quello del noir torinese.
Risalii perfino a De Amicis e ai suoi giri in tram nella «Carrozza di tutti» (1899), in cui l’uomo di «Cuore» braccava gli innamorati poveri di Borgo San Donato, per vederli poi sposi felici, o l’anziana madre di un disperso nelle guerre d’Africa che da Pozzo Strada andava a vendere pomodori a Porta Palazzo, allora periferia (come pure la Crocetta). Storie in cui alla fine tutti si volevano bene. A me piacerebbe pigliare oggi De Amicis e farlo viaggiare con una smart card Gtt sulla linea 4, da Mirafiori alla Falchera passando per Porta Palazzo, e osservare le sue mutazioni genetiche durante il percorso.
Pasolini nella «Vita violenta» non scherzava, come anche a me passò la voglia di divertirmi in via Artom quando arrivò la tragedia: uno dei ragazzini più piccoli che conoscevo, il chiodo antracite anche d’estate, un giorno entrò in un’oreficeria assieme a una vera banda, e con un colpo di lupara staccò la testa al poveraccio dietro al banco. Per prenderlo, la polizia mise una pattuglia sotto casa sua: la seconda notte lo vide riapparire pieno di sonno davanti al silos.
In quegli anni, però, meglio della letteratura mi aiutavano la fotografia e il cinema, come la «Ragazza di via Millelire» (1980), girato a pochi metri da via Artom da Gianni Serra, con il suggerimento della mano potente di Diego Novelli. Era la storia di una ragazzina che attraversava il peggior letame senza perdere la propria innocenza, come Candido. Oppure i réportage fotografici, in bianco e nero, con le crudezze dei morti ammazzati per un avamposto di spaccio, o i ritratti di bambini che non sapevi se collocare alle Vallette o a Calcutta. Il culmine di quella ricerca iconografica fu «Ragazzi di stadio» (1979) di Daniele Segre, mostra promossa dall’assessore allo sport del Comune, Fiorenzo Alfieri, sugli adolescenti vestiti da «Arancia meccanica» che si massacravano nelle curve del Comunale. Immagini dove riconobbi alcune delle mie conoscenze, ma che non vantai in pubblico.
Nello stesso 1979 Fruttero e Lucentini si chiesero «A che punto è la notte», sguazzando nei luoghi allora più marginali della città: «In via dei Rododendri non c’era nessun rododendro. Vent’anni prima, dopo molti viaggi-studio nei Paesi scandinavi, un gruppo di architetti e urbanisti aveva deciso di costruire all’estrema periferia di Torino un quartiere modello, dove due o tremila cittadini fra i meno abbienti potessero vivere in mezzo alla natura». Esperimenti che portarono fortuna ai loro ideatori, un po’ meno a chi toccò subirli.
E poi, con il maturare del tempo, iniziò una nuova fioritura, di cui ecco qualche esempio parziale a arbitrario. Alessandro Perissinotto, con «L’ultima notte bianca» (2008), siamo al tempo delle Olimpiadi invernali, sta dalla parte degli esclusi dalla grande festa che intanto trasforma la città. Fabio Geda fa parlare i figli di chi negli anni Sessanta girava con il chiodo: «Troppa rabbia nelle ossa. Ho camminato fino al Parco Dora, un posto dove prima c’era un’acciaieria. Era giugno e si stava bene, anche se i lampioni coprivano le stelle. Non c’era nessuno. All’alba un gatto è venuto ad annusarmi i lacci delle scarpe» («Anime scalze», 2017). Marco Dardanelli, «La Luna nel quartiere» (2017), rievoca le sue avventure picaresche a Madonna di Campagna, quand’era un gagnu malefico a cui bastava un mangiadischi per essere felice.
Fuori dai percorsi narrativi, matura intanto un’altra pista, quella dello scavo nella memoria. Uno dei protagonisti, dall’inizio del millennio, è Roberto Giachino con la sua casa editrice Graphot. La collana sui quartieri torinesi, oggi diretta dalla figlia Laura, ha raccolto un materiale storico sterminato che né banche della memoria né progetti di natura pubblica hanno mai messo insieme. C’è infine chi attrae i libri in periferia: Catia Bruzzo, nella sua piola di via Bibiana, Borgo Vittoria, in tempi di sonnolenza del quartiere ha destinato metà del suo locale agli scrittori. Da lei ne sono passati a decine, ignoti e famosi, in lunghe serate a discutere di romanzi e poesia davanti a formaggi e acciughe al verde. Finché Margherita Oggero, a forza di frequentare la piola, non ha deciso di adottarla letterariamente. Ma che combinazione.