Un passo nella storia e un passo avanti nel processo d’integrazione: il Vertice dell’Ue protrattosi a Bruxelles da venerdì a martedì – una vera e propria maratona – ha un’importanza paragonabile a quello che, nel dicembre del 1991, a Maastricht, in Olanda, sancì la nascita dell’Unione europea e la scelta dell’euro, la moneta unica.
Per la prima volta, i Paesi dell’Unione hanno deciso di condividere i loro debiti, una parte di essi, in base a un principio di solidarietà che l’asprezza dei negoziati e il radicamento dei pregiudizi non hanno scalfito. Specie in tempi d’epidemia, è interesse di tutti che ciascuno sia in salute.
È stato il Vertice più lungo da almeno 20 anni, da quando cioè a Nizza, nel 2000, fu rivisto l’assetto istituzionale europeo; forse il più lungo nella storia dell’Ue, dal 1° novembre 1993 (prima, c’era la Comunità economica europea).

I grandi cambiamenti non avvengono mai senza profondi travagli. Ed è normale che ci sia voluta fatica e pure sofferenza per partorire l’accordo storico sul Recovery fund annunciato – alle 05.31 di martedì 21 luglio – dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel: un pacchetto d’interventi da 750 miliardi, 390 di sussidi e 360 di prestiti.
L’intesa spartiacque, con cui per la prima volta l’Unione dà concretezza alla solidarietà finanziaria e mette in comune una porzione di debito, è parte d’uno stimolo economico complessivo che vale 1.800 miliardi, mettendo insieme gli interventi di Bce e Bei, la nuova cassa integrazione europea, il ‘fondo salva Stati’, il Mes, riconvertito a ‘fondo anti-virus’, e, appunto, il Recovery fund. Tutto garantito da un bilancio da 1.074 miliardi in sette anni.
Abituata a fare la sparagnina, l’Ue ha dato questa volta una risposta adeguata all’impatto umano, sanitario, economico, sociale dell’epidemia da coronavirus: nulla di paragonabile alla risposta senza slancio e senza visione data, un decennio fa, alla crisi finanziaria che, venendo dagli Usa, investì l’Europa e mise in ginocchio la Grecia.
A Bruxelles, questa volta, hanno vinto tutti: anche i «cattivi», che non sono certo i Paesi «frugali» additati al pubblico ludibrio da certi italici commenti, ma piuttosto la Polonia e l’Ungheria, che intaccano lo Stato di diritto. Il presidente francese Emmanuel Macron e molti altri leader parlano d’una «giornata storica»; la cancelliera tedesca Angela Merkel vi vede la prova che l’Ue sa gettare il cuore oltre l’ostacolo e aprire nuove frontiere; la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen vi legge un segno «del coraggio e della capacità di pensare in grande dell’Europa». Per il presidente del Parlamento europeo David Sassoli l’intesa è «senza precedenti»; il commissario europeo Paolo Gentiloni la considera la decisione più importante dall’introduzione dell’euro.
E l’Italia? Ha vinto anche lei, come tutti. Ma le resta da fare il più difficile: usare bene quei fondi – 209 miliardi tra aiuti e prestiti – che il Recovery fund le destina: riforme e infrastrutture, non aiuti a pioggia e mancette.
Il negoziato, i protagonisti e i risultati
Patrizia Antonini è una delle giornaliste dell’Ansa che ha seguito la maratona negoziale di oltre 90 ore e contesta il confronto con le trattative di Nizza e, in generale, del passato, quando i leader intorno al tavolo erano una dozzina, al massimo 15: «Questa volta, il confronto è stato a 27, molte più sensibilità da accordare e molto show ad uso e consumo dei Parlamenti e delle opinioni pubbliche nazionali, che di qui a gennaio questo compromesso lo dovranno votare, prima dell’ok finale al piano di rilancio delle economie messe in ginocchio dalla peggior crisi dal dopoguerra», una crisi non localizzata a un Paese o a un gruppo di Paesi, ma che ha colpito tutti e dovunque.
Per la Antonini, la Merkel è stata ancora una volta una grande mediatrice (la Germania assicura in questo semestre la presidenza di turno del Consiglio dei ministri dell’Ue): ha saputo affiancarsi, con la sua autorevolezza, al presidente dei lavori Michel nei momenti più difficili, specie nella notte tra domenica e lunedì, quando la partita sembrava avviarsi al nulla di fatto.
Le scoglio erano le richieste di ridimensionamenti degli ammontare e di rigidità dei meccanismi di governance dei leader rigoristi o frugali (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia), i cui principali portavoce sono stati Mark Rutte e Sebastian Kurz, leader giovani, liberale il primo e popolare il secondo, impegnati a contenere in patria i fermenti nazionalisti e ‘sovranisti’.
Il Recovery fund era stato messo in sicurezza già nel pomeriggio di lunedì, quando la cosiddetta Resilience and Recovery Facility, cuore del Fondo, allocata ai Paesi secondo una precisa chiave di ripartizione, è stata aumentata a 312,5 miliardi (rispetto alla proposta di 310 miliardi presentata dalla Commissione a maggio). Una sforbiciata ha invece ridotto i trasferimenti tra i programmi.
Il bilancio europeo 2021-2027 è rimasto sui 1.074 miliardi di impegni. Ma sono stati accontentati i frugali con allettanti rebates, cioè i rimborsi introdotti per la prima volta negli anni Ottanta su richiesta di Margaret Thatcher. Dopo la Brexit, molti leader Ue avrebbero voluto cancellarli. Invece, in alcuni casi sono stati raddoppiati. Alla Danimarca sono così andati 322 milioni annui di rimborsi (rispetto ai 222 milioni della proposta di base); all’Olanda 1.921 miliardi (da 1.576); all’Austria 565 milioni (da 287); e alla Svezia 1.069 miliardi (da 823 milioni).
A risolvere la questione della governance, ovvero del controllo sull’attuazione delle riforme come condizione per i relativi pagamenti, su cui Rutte pretendeva una sorta di diritto di veto, è stata l’idea d’un super-freno di emergenza emendato. A uscirne, invece, mortificato è stato il tentativo di condizionare gli aiuti europei al rispetto dello Stato di diritto: il fatto che il leader ungherese Viktor Orban, pronto su questo tema allo scontro totale, ne abbia addirittura applaudito l’adozione, testimonia la scarsa incisività di questo passaggio.
L’impatto per l’Italia nel giudizio di Conte e Mattarella
All’Italia, l’intesa porta una dote di 209 miliardi, il 28 per cento del totale del Recovery Fund. Il premier Giuseppe Conte è riuscito a strappare un piatto più ricco – 82 miliardi di sussidi e 127 di prestiti – rispetto alla proposta della Commissione di maggio, che destinava al nostro Paese 173 miliardi (82 di aiuti e 91 di prestiti).
«Avremo una grande responsabilità: con 209 miliardi abbiamo la possibilità di fare ripartire l’Italia con forza e di cambiare volto al Paese. Ora dobbiamo correre», ha detto molto soddisfatto a fine trattativa il presidente del Consiglio italiano, affermando di essere giunto a questo risultato «tutelando la dignità del nostro Paese». Il Governo sta elaborando il piano di riforme strutturali necessario per beneficiare delle risorse e che sarà presentato a ottobre, almeno nelle intenzioni del ministro Roberto Gualtieri.
L’intervento europeo è di portata «storica» per l’Europa e per l’Italia, a giudizio di Conte, che annuncia investimenti strutturali e riforme per un Paese «più verde, più digitale, più innovativo, più sostenibile, più inclusivo».
Nel giudizio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ci sono ora «condizioni proficue» per «predisporre rapidamente… un concreto ed efficace programma di interventi». I soldi europei, sottolinea il Presidente della Repubblica, esprimendo a Conte «apprezzamento e soddisfazione», dovranno essere subito incanalati in interventi «efficaci».
Da Maastricht a Nizza a Lisbona a Bruxelles
Il Vertice di Bruxelles sul Recovery fund si colloca fra i più importanti Vertici che dal 1991 a oggi segnano il percorso dell’Ue.
Maastricht ’91 – L’omonimo Trattato che viene approvato dai leader degli allora 12 Paesi membri nel Vertice di dicembre nella cittadina del Sud dell’Olanda rappresenta l’atto di nascita dell’Unione, fino ad allora Cee, e l’inizio del percorso che nel 2002 porterà l’euro come moneta unica nelle tasche dei cittadini di molti Paesi europei. Il Regno Unito e la Danimarca ottengono l’opting out, ovvero l’opportunità di non adottare l’euro pur avendone i requisiti.
Bruxelles ’98 – Il 3 maggio il Consiglio europeo stabilisce che l’Italia e altri dieci Paesi Ue rispettano i parametri fissati dal Trattato di Maastricht per adottare l’euro.
Nizza 2000 – Al termine di una maratona durata quattro giorni e quattro notti, dal 7 all’11 dicembre, i capi di Stato e di governo dell’Unione riescono a trovare l’intesa sul Trattato che prenderà il nome dalla città francese. L’accordo riforma le istituzioni europee e i sistemi di voto in vista dell’ingresso nell’Unione di un nuovo cospicuo gruppo di Paesi candidati, quelli dell’Europa centrale e orientale, oltre a Malta e Cipro. Va in scena una battaglia che vede il gruppo dei ‘piccoli’, capitanati da Belgio e Portogallo, confrontarsi con i ‘grandi’. Nizza introduce il sistema delle cooperazioni rafforzate.
Lisbona 2007 – A dicembre si firma il Trattato che chiude una tormentata stagione iniziata nel 2003 con l’ambizione di varare una Costituzione europea, poi naufragata in seguito ai «no» nei referendum in Francia e Olanda. A Lisbona si cerca di metabolizzare il fallimento varando riforme importanti, tra cui l’ampliamento sostanziale dei poteri di co-decisione del Parlamento europeo e la nascita d’una presidenza permanente del Consiglio europeo.