Tappa fondamentale delle Giornate mondiali della Gioventù “inventate” da san Giovanni Paolo II sono da sempre le catechesi che si tengono il mattino: i pellegrini, divisi in gruppi linguistici, sono invitati ad approfondire il tema della Gmg con i loro Vescovi. Anche i ragazzi e le ragazze giunti a Lisbona dalle diocesi piemontesi mercoledì 2 agosto hanno partecipato alla catechesi sul tema “Amicizia e fraternità” guidata dal nostro Arcivescovo, mons. Roberto Repole. Intanto nel pomeriggio, il Papa è atterrato a Lisbona e giovedì, nell’immenso Parco Eduardo VII, si è tenuto il primo incontro con i 700 mila pellegrini che lo attendevano, dopo la pausa forzata della pandemia: è stato un abbraccio ideale a tutti i giovani del mondo. Giunto sul palco, dopo aver girato tutto il parco sulla papamobile per salutare i pellegrini uno ad uno, il Papa ha seguito la sfilata delle bandiere dei Paesi di provenienza dei giovani, alcuni in guerra come l’Ucraina altri in estrema povertà, come alcuni paesi dell’Africa.
Paure, povertà, fragilità, incertezza per il futuro i pensieri rivolti al Papa dai rappresentati dei giovani che chiedono pace e salvaguardia del pianeta. Francesco ha invitato tutti a “non mollare perchè non siamo soli… “Tu sei stato chiamato per nome, tutti siamo stati chiamati per nome perche’ siamo amati…che lindo!!! Che bello!!!…” – ha detto Francesco in uno dei passaggi più significativi del suo saluto. “Il Signore non punta il dito ma allarga le braccia. Dio ci ama cosi’ come siamo, non come la societa’ e i social ci vorrebbero…Dio ci ama, nella Chiesa c’e’ spazio per tutti, cosi’ come siamo: nella Chiesa nessuno e’ di troppo”.
Ieri sera, venerdì 4, la Via Crucis presieduta dal Papa ha ripercorso i dolori del mondo, di tanti bambini e giovani costretti alla schiavitù per sopravvivere, presentandoli a Gesù sul Calvario.
E oggi, sabato 5 al santuario di Fatima, pellegrino con 200 giovani, tra cui 12 detenuti e molti disabili, Francesco in carrozzella “malato tra i malati” ha presieduto la preghiera del Rosario scandito dalle decine recitare dai giovani nelle loro lingue. Per l’Italia una ragazza disabile che con fatica e passione ha guidato “l’Ave Maria”. «Maria, nostra Signora ‘affrettata’» ha detto il Papa parlando a braccio al termine del Rosario ‘inventando’ una nuova litania alla Vergine «ci indica Gesù, ci accoglie e ci accompagna. Maria ha fretta di accoglierci». E ancora: «La Chiesa è senza porte, accoglie tutti».

Pubblichiamo la Catechesi di mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, sul tema “L’amicizia e la fraternità” Lisbona, 3 agosto 2023
(Grazie a Lara Reale per la trascrizione dalla registrazione audio)
Sono Irene, vengo dalla diocesi di Torino e vorrei farle questa domanda. Molto spesso noi parliamo di fraternità, però magari non mol sanno a che cosa ci si riferisce. Quindi, quando parliamo di fraternità, di cosa samo parlando? E, sopratuto, come possiamo viverla nel mondo di oggi?
Buona giornata a tutte e a tutti, anzitutto! Pensavo – per rispondere a questa domanda davvero interessante – che mi piacerebbe partire in tono maggiore, parlando di cose belle, immaginando che la fraternità sia qualcosa di così attraente e immediato che, tutto sommato, la si vive in maniera normale. Però non mi sentirei onesto nei vostri confronti, ma neanche nei miei. Perché se guardo al mondo di oggi così com’è, mi viene da dire che troppe volte facciamo anzitutto l’esperienza della non-fraternità o, se volete, di una fraternità profondamente ferita e mutilata. Siamo in tantissimi giovani, qui a Lisbona in questi giorni, ma pensavo che con tutta probabilità ne mancherà una fetta molto grande, che è quella dei giovani dell’Ucraina e anche della Russia, che non fanno la GMG perché non possono permetterselo… E sono giovani come noi, ma purtroppo sono destinati, in questi stessi giorni, a fare la guerra. E noi non possiamo parlare di fraternità senza sentire che questa cosa ci ferisce profondamente. Ci sono dei giovani, delle donne e degli uomini che non soltanto non vivono la fraternità, ma vivono delle ferite profondissime perché si sentono soli, umilia, offesi, attentati addirittura nella loro vita. Mi colpiva in questi mesi – ma è più di un anno che va avanti – mi colpiva ogni tanto sentire dei giovani che dicono, quando vengono intervistati, che oramai la loro vita è finita, che quei posti che erano i posti della loro giovinezza, della loro bellezza, dei sogni del loro futuro sono oramai delle macerie.
Noi parliamo di fraternità, ma dobbiamo guardare in faccia questo: ci sono dei popoli che si combattono l’uno con l’altro. E senza andare tanto lontano – lo accennava don Luca prima – forse, se siamo onesti, dobbiamo parlare di fraternità sapendo che molto spesso le nostre relazioni sono delle relazioni ferite, a volte segnate dalla violenza e dall’individualismo, a cominciare dalle nostre famiglie. Sarebbe interessante che ciascuno di noi guardasse la sua famiglia, non solo il cerchio più ristretto della propria famiglia ma quello un po’ più allargato: appena allarghi un po’, sai benissimo che ci sono a volte fratelli che non si parlano, cugini, addirittura figli e genitori! E poi noi stessi facciamo nelle nostre amicizie l’esperienza di relazioni che dovrebbero essere belle, autentiche, avvincenti, vitali e che invece sono spesso fonte di grandi delusioni, di grandi amarezze.
Ma nello stesso tempo, guardando con serietà e anche con onestà a questo mondo, mi viene da dire: sì, noi parliamo di fraternità oggi; potremmo dire “siamo tu fratelli” perché viviamo in un mondo globalizzato. Ma che cosa abbiamo globalizzato? Abbiamo globalizzato i soldi, abbiamo globalizzato l’economia. L’economia è globale: è vero. Fate un giro in questa città. Più o meno vedete, se avete visitato altre città, che sono costruite tutte allo stesso modo oramai: sai dove trovare i grandi supermercati, sai dove si vendono le auto, sai dove ci sono i grandi centri commerciali, perché questo è globalizzato. Ma poi devi sperimentare che questa globalizzazione significa che alcuni popoli rimangono sotomessi e altri si arricchiscono sempre di più. Dov’è la fraternità?
Oppure possiamo pensare – qualcuno lo accennava alla festa di ieri sera – a quei milioni oramai di giovani che per sopravvivere devono metersi su un barcone, sapendo che hanno pochissime possibilità di arrivare dall’altra parte del mare e, se le hanno, comincia un’avventura infinita. Non sono dei numeri – qualcuno lo diceva ieri sera – sono dei volti. Papa Francesco, nell’ultimo incontro che ha fatto con i vescovi, ci ha regalato un piccolissimo libretto, si intitola «Fratellino»: è di un uomo giovane della Guinea che ha perso il suo fratello di carne, che ha voluto tentare l’avventura in un barcone, e non sapeva come ritornare a casa e dirlo alla sua madre e alle sue due sorelle. Questo vivono tante giovani e tanti giovani come noi! Dovremmo vivere in un mondo di amicizia, solidarietà, fraternità e poi sperimentiamo questo… Dobbiamo dircelo! Non mi sentirei onesto a parlare di fraternità con voi oggi senza mettere davanti ai nostri occhi e ai nostri cuori questa realtà che è nostra.
Ma per essere più vicini a noi noi siamo in un mondo iperconnesso, mai nessuna generazione come la vostra ha avuto la possibilità di essere connessa con tutti in modo immediato, sempre. Eppure mi stupisce – ve lo devo dire – che qualche volta siamo amici su Instagram, sui social… e poi, se ci vediamo di persona, non ci salutiamo neanche. Siamo connessi, è vero, ma siamo davvero in relazione? Sentiamo che la mia vita è bella perché ci sei tu e probabilmente la tua vita è bella perché ci sono io? Sentiamo che, se io ho bisogno, so che posso contare su qualcuno e, se tu hai bisogno, hai la certezza di poter contare su di me? O siamo solo connessi attraverso un piccolo grande schermo? Verrebbe da dire – per stare alla domanda che mi è stata fatta e cioè come pensare la fraternità oggi – verrebbe da dire che viviamo in una fraternità ferita. È vero. Eppure, nello stesso tempo, non sarei onesto con voi se non vi dicessi anche che, se ci indigniamo ancora per la guerra, per le ingiustizie, per le migrazioni necessarie per sopravvivere, se ci indigniamo e proviamo un certo imbarazzo perché siamo tu connessi tra di noi ma a volte ci sentiamo soli come dei cani… ecco, se ci indigniamo, è segno che non siamo fatti per la solitudine. Non siamo fa per la solitudine!
Se ci indigniamo, è segno che invece siamo fatti per vivere in solidarietà, gli uni con gli altri, sapendo di poter contare sull’affetto, sull’amicizia, su ciò che l’altro mi può offrire e sapendo che la parte più bella di me è ciò che io posso offrire per sostenere l’altro. L’altro che è certamente la mia amica, il mio amico, il mio ragazzo, la mia ragazza anche magari, i miei familiari… ma l’altro che è tutti coloro che mi capita di incontrare nella vita. E da questo punto di vista stiamo vivendo qui un’esperienza davvero eccezionale, davvero eccezionale! Lo diceva don Luca e ha ragione: siamo in tanti, non soltanto della stessa Chiesa, non soltanto delle stesse Chiese della stessa Regione, non soltanto dell’Italia, siamo in tantissimi di tutto il mondo e possiamo sentire che alla fine siamo una cosa sola. Quello che capita a me ha un valore per la vita di tante altre giovani e di tanti altri giovani che vivono magari a migliaia di chilometri di distanza, ma dovrebbe essere vero anche il contrario.
Possiamo avere speranza soprattutto perché la parte più bella di me non è quella in cui io credo di dover vivere facendo il furbo, non è quella in cui io penso di dovermi affermare nonostante tuto e tu, non è quella che mi fa credere che tu gli altri siano soltanto dei competitors. La parte più bella di me è quella che mi fa dire che io sono veramente vivo quando mi apro agli altri. Allora sì: viviamo in un mondo che sembra essere la minaccia strutturale delle relazioni, dell’amicizia, della fraternità… ma sentiamo profondamente – lo sperimentiamo tutte le volte che siamo davvero insieme – che quello non è il mondo così come dovrebbe essere, quello è il mondo quando è malato. Il mondo così come dovrebbe essere è un mondo in cui – al di là del colore della pelle, al di là del genere, al di là della provenienza, al di là delle ricchezze che abbiamo, al di là delle simpatie, al di là delle qualità… – noi sentiamo che siamo una cosa sola, anzi io sono tanto più me stesso quanto più mi apro a te e tu sei tanto più te stesso quanto più sei capace di aprirti a me. Questo è il mondo sano, l’altro è il mondo malato. A noi spetta di scegliere in quale mondo vogliamo vivere.
Ciao, sono Arianna della diocesi di Mondovì. Volevamo chiederle perché la fraternità coinvolge la nostra fede? La fraternità può essere anche tra fedi diverse, ma come la fede ci può aiutare?
Grazie, anche questa è una bellissima domanda: la fraternità ha a che fare con la nostra fede? Sì, eccome! Se me lo consente, vorrei parre da un poco lontano, ma per dire quanto è profonda questa domanda che mi è stata fata e quanto è seria la fraternità che ci lega fra di noi. Ieri, ragionando dell’ecologia integrale, cioè del fatto che tutto è connesso, che noi ci salviamo se salviamo la “casa” in cui abitiamo cioè la Terra, ieri abbiamo fatto riferimento alla prima pagina della Bibbia. Magari noi non siamo così esperti della Bibbia, pochi magari l’hanno letta – non importa – però più o meno tu sappiamo come comincia. Comincia con Dio che crea tutto quello che c’è: il cielo, la Terra, i mari, i monti… Poi crea anche l’uomo – qualcuno lo diceva – e quando crea l’uomo si stupisce e dice: questo è bello bello, buono buono, qualcosa di eccezionale! Ma che cosa pensa Dio quando crea l’uomo? Vi sembrerà strano, nella nostra fede noi crediamo questo: quando Dio crea l’uomo, pensa a Gesù, pensa al suo figlio che diventerà uomo come me, come te. E quindi crea l’uomo pensando che ciascuno è, in Gesù e attraverso Gesù, un figlio di Dio e pensando che ciascuna e ciascuno è, proprio per questo, fratello e sorella di Gesù e fratello e sorella di tu gli altri.
È per questo che noi sperimentiamo la fede dentro un contesto che chiamiamo la Chiesa. Quando pensiamo alla Chiesa – so di sfondare delle porte aperte – noi pensiamo soprattutto al Papa, ai vescovi, ai preti, agli scandali e via di seguito…tutte cose verissime. Però – se me lo consente, spero di non offendere nessuno dei vescovi e dei preti presenti – questa è la “buccia” della Chiesa. Tu puoi prendere una banana: c’è bisogno della buccia perché, se non c’è la buccia, non si conserva la banana. Spero però che voi non mangiate la buccia, ma mangiate la banana! C’è una scorza di cui c’è bisogno per mantenere la realtà più profonda. Ma qual è la realtà più profonda? È questa: è il fatto che noi crediamo in Gesù e, proprio per questo, ci sentiamo figli di Dio, non semplicemente qualcosa che è stato buttato sulla Terra e poi… aggiùstati! No: figlio e figlia amati da Dio in ogni istante, anche adesso. Pensate: se adesso Dio mi togliesse la sua paternità, cioè la sua vita, io non ci sarei, non ci saresti neanche tu. Adesso… adesso mi sta generando come figlio, ma proprio per questo mi sta facendo fratello di tu voi e, generando voi come figli, vi sta facendo fratelli e sorelle miei.
Siamo una cosa sola perché in noi circola la stessa vita, che non è semplicemente la vita umana, biologica, ma è la vita di Dio. Per questo la fraternità ha una grande importanza per la nostra fede, nella nostra fede, per dei credenti. Noi siamo Chiesa perché sappiamo che possiamo fare l’esperienza di Dio soltanto facendo l’esperienza tra di noi della comunione e della solidarietà, che poi devono essere molto reali. Non possiamo pensare di vivere da credenti pensando che la fraternità si riduca al piccolo gruppo in cui io faccio la mia esperienza in parrocchia e ritenendo che la mia parrocchia sia tutto. No, non è così! Lì ne fai un’esperienza, ma quella esperienza è così profonda, così seria, così pregnante che apre a tutte le altre ragazze, a tutti gli altri ragazzi, che come te hanno la stessa fede in Gesù.
E se volete c’è un luogo – e finisco – in cui sperimentiamo tuto questo, un luogo che per voi giovani – io lo so – oggi purtroppo è sempre più difficile da frequentare: è quella Messa, quell’eucaristia che celebriamo tutte le domeniche. Non so se vi siete mai chiesti – al di là dell’obbligo, che poi oggi non dice niente a nessuno -: ma perché la Chiesa ci chiede tutte le domeniche di andare a Messa, di ritrovarci insieme a Messa? Per fare l’esperienza di due cose. La prima: noi siamo fratelli soltanto nella misura in cui ci apriamo a Gesù, il primo dei fratelli. E soltanto se riceviamo da Lui la vita; e, infatti, noi mangiamo quando facciamo la comunione e mangiamo il corpo di Cristo per prendere la sua vita dentro di noi. Ma andiamo a Messa la domenica e siamo invitati ad andare a Messa la domenica per scoprire che, mangiando lo stesso corpo di Cristo, noi diventiamo una cosa sola. Io posso anche non conoscere tutti gli altri preti, vescovi con cui abbiamo celebrato l’eucaristia l’altro giorno, tutte le giovani e i giovani… non ho mai visto nessuno di tutti quelli che vengono dall’altra parte del mondo. Eppure l’altro giorno noi abbiamo fatto nella Messa una grandissima esperienza di fraternità, perché abbiamo detto: noi siamo fratelli soltanto se ci sei tu in mezzo. E abbiamo detto: possiamo non conoscerci, possiamo non essere amici, possiamo non condividere tutto ma, quando condividiamo la fede, circola tra di noi una stessa vita. Chiaro che poi questo deve diventare concreto nelle amicizie che viviamo con tutti coloro che incontriamo nella Chiesa.
E poi – e finisco – mi sembra che la fraternità abbia a che fare con la fede perché la Chiesa dovrebbe essere quella comunità di fratelli e di sorelle che è aperta a generare legami di fraternità dappertutto, con chiunque ci voglia stare. Io trovo stupido e anche miope e poco rispettoso della fede quell’atteggiamento che abbiamo in certe comunità quando ci diciamo: facciamo la fraternità soltanto tra di noi e poi gli altri sono altri. No! Facciamo la fraternità vera fra di noi: aiutiamoci, sosteniamoci, preghiamo insieme, aiutiamoci nel momento del bisogno, ma sapendo che, anche se siamo pochi, dobbiamo creare dei legami ovunque, anche con quelli che hanno altre fedi, anche con chi non crede… Anzi: dovremmo avere degli occhi capaci di vedere tuto ciò che la bellezza della fraternità ha anche attorno a noi. Chi non ha questo coraggio – concedetemelo – non ha semplicemente il coraggio della fede.
Ciao a tu, io sono Dorothea, arrivo dalla diocesi di Ivrea e volevo chiedere al vescovo Roberto: come possiamo fare noi giovani, una volta che torniamo a casa, finita la GMG, per trasformare i nostri legami in autentica fraternità?
Beh, visto che ci siamo un po’ scaldati e siamo diventati subito anche un po’ amici, mi verrebbe da dire così. Se io facessi il furbo oggi, risponderei facendo eco a quello che ha detto monsignor Guido ieri, perché aveva ragione monsignor Guido a dirci quello che ci ha detto: nessuno vi può dare la ricetta, siete voi che tornando a casa dovete cercare di vedere come ognuna e ognuno può realizzare quello che ha vissuto qui in termini di fraternità nella sua comunità, nel suo gruppo, nella sua parrocchia, nella sua scuola, nella sua università, nel suo posto di lavoro. Però non voglio fare il furbo. Allora, pur sapendo che è così, provo a dare qualche piccolo suggerimento, ma dei suggerimenti che aprono poi alla vostra riflessione personale.
A me sembra che una piccola attenzione che potremmo avere oggi e in questi giorni è questa: quella, anzitutto, di non sciupare le relazioni belle che abbiamo costruito qui o, magari, rinsaldato qui. Ieri, giustamente, qualcuno di voi ha fato una domanda, forse più di voi, una domanda interessante: noi parliamo di ecologia e poi sciupiamo delle cose, non facciamo attenzione alle cose che sciupiamo. Ed è vero: è una contraddizione, ma non è meno contraddizione il vivere delle esperienze di amicizia, di fraternità, di intimità e poi sciuparle, e poi far finta di non aver vissuto niente. Se posso dirvi una confidenza, se c’è una cosa di cui mi pento nella vita – tra le tante, perché ho tanti peccati! – ma se c’è una cosa di cui mi pento, è non aver coltivato abbastanza alcuni legami che sono stati intensi magari in altre stagioni della mia esistenza. Questo lo reputo un peccato, perché ho sciupato qualcosa. E, se posso dirvelo in positivo, sono vescovo da un anno e mezzo, ma è stato bello – diventando vescovo – riscoprire delle persone amiche con cui non avevo più relazioni da decenni e con cui si è ripresa un’intimità. La prima cosa che vi direi è questa: non sciupate i legami che state costruendo qui o che state rinsaldando qui, perché la GMG è anche un’occasione per le vostre parrocchie, per i vostri gruppi, di rinsaldare dei legami che ci sono. Lo sapete meglio di me, non devo insegnarvi niente insomma: un conto è vivere un anno di gruppo, trovandosi una volta alla settimana, una volta al mese… un conto è vivere dieci giorni insieme, è tutta un’altra esperienza di fraternità e di solidarietà. Non sciupate questo!
Poi vi direi una seconda cosa: non smettete di rimanere attaccati alla sorgente della fraternità. La fraternità è come l’acqua che disseta, ma ci va una sorgente: se la chiudi, hai la sete della solitudine. E questa sorgente – non dobbiamo vergognarci di dirlo – è Gesù, per le cose che abbiamo detto prima. Non staccatevi da quella sorgente; abbeveratevi a quella sorgente in mille modi, anche nel silenzio e anche nella preghiera. È strana la nostra fede cristiana: se ci fate attenzione, quando preghiamo, facciamo un atto di profondissima intimità, siamo soli. Io credo che l’intimità più profonda la sperimentiamo nella preghiera, più ancora che nell’intimità sessuale: siamo soli davanti a Dio. Eppure è quella solitudine che ci fa sentire nella pace e nella comunione con tutti. Quando non ci stacchiamo dalla sorgente, quando beviamo alla sorgente, allora facciamo davvero l’esperienza profonda della fraternità.
Poi vi suggerirei di avere almeno qualche esperienza di amicizia autentica e profonda e di domandarvi se nella vostra vita c’è qualche fratello o qualche sorella che è davvero amico-amica. Mi permetto di dirvi questo, tanto poi a fine mattinata ci salutiamo: qualche volta – siccome sono come tutti voi – mi è venuta la tentazione di chiedermi nella vita se valesse la pena di stare nella Chiesa. Perché nella Chiesa dovremmo vivere tutti da figli e da fratelli – lo abbiamo detto – ma poi siamo tu donne e uomini peccatori e quindi anche tra di noi ci sono conflitti, ci sono competizioni, ci sono delle cose brutte. Quello che mi ha sempre sostenuto nel dire “ma io da qua non mi stacco, non mi staccherò mai” è di avere dei fratelli e delle sorelle amici, avere degli amici. Vi suggerirei di tornare a casa sapendo e facendo in modo di avere qualche sorella e qualche fratello amico.
E, infine, un ultimo suggerimento perché questa amicizia sia vera, non sia semplicemente la possibilità di solleticare il nostro ombelico e chiuderci ancora di più in noi stessi. Un ultimo suggerimento è di avere qualche amico, qualche amica, di cui prendersi cura perché ha proprio bisogno di te per stare in piedi. E voi lo sapete meglio di me: ci sono dei bisogni di ordine materiale e, se qualcuno può aiutare altre o altri a vivere meglio perché è più abbiente, si prende cura di qualcuno. Ma ci sono dei bisogni di altro genere. Quante solitudini ci sono nei nostri gruppi parrocchiali! Quante solitudini ci sono nelle nostre classi del liceo! Quante solitudini nei nostri banchi di università o nei posti di lavoro! Mi ha colpito sentire di due ragazzi – ieri lo diceva un vescovo – che sono torna a casa perché presi dal panico di stare in mezzo a tanti. Ho pensato che forse è l’effetto, tra il resto, dell’esperienza del covid che ci portiamo alle spalle. Abbiamo ancora paura degli altri e abbiamo paura perché facciamo delle esperienze di solitudini che ci fanno stare male, male, male! Come sarebbe bello se tornassimo da qui, da questa GMG, dicendo: beh, io da martedì, da mercoledì mi prendo l’impegno di avere cura di Carlo, Serena, Francesco, Grazia… metteteci voi il nome.
(Pausa per la riflessione; segue un secondo giro di domande)

Come si connette la base, il terreno sotto la casa che stiamo costruendo, cioè l’ecologia integrale, con la fraternità? Questi temi non sono giustapposti: qual è il legame di senso?
Voi sapete che questi due temi – l’ecologia, la casa comune, e la fraternità – sono due temi che ha consegnato alla riflessione della Chiesa e del mondo intero il nostro papa Francesco, ed effettivamente sono due temi connessi. Secondo me, in questo modo: se tu vivi la tua vita pensando di essere l’unico al mondo o il centro del mondo, tu ti disinteressi degli altri e gli altri sono, non soltanto quelli che stanno vivendo insieme con te adesso, ma anche tutti quelli che abiteranno la Terra dopo di te. Perciò puoi usare le risorse della Terra, non permettendo ad altri di usare quelle stesse risorse. Se invece tu concepisci la vita pensando che sei – io direi così – uno tra tanti, sei unico ma non sei il solo, sei uno tra tanti, e dunque tu sei tanto più te stesso quanto più apri con gli altri, è evidente che non soltanto avrai cura degli altri, ma hai cura anche della casa che è tua e dei tuoi fratelli che stanno attraversando la vita in questo momento insieme con te e di quelli che ci sono sta prima e di quelli che ci saranno domani.
Metto insieme un po’ di provocazioni. Di tutto quello che abbiamo detto, alcuni hanno chiesto: sì però nella Chiesa non sempre tutti si possono sentire a casa nella fraternità e nell’amicizia, ci sono discriminazioni. E, d’altra parte, si è insisto giustamente tanto su questa radice della fraternità nella fede, ma quando ci sono altri ragazzi e ragazze che entrano nella fraternità e nell’amicizia con una fede diversa (abbiamo a volte animatori e animatrici che sono, per esempio, di fede musulmana), in quel caso lì il tema della fede come impatta con la fraternità?
Io direi così: che bisogna fare attenzione perché nella Chiesa non ci siano discriminazioni, però dobbiamo essere molto onesti e sapere che le discriminazioni possono essere di tutti i tipi, non soltanto quelle di cui il mondo oggi ci parla. Ci sono delle piccole e grandi discriminazioni anche nei nostri gruppi, e allora dobbiamo sapere di dover essere aperti a tutti e a ciascuno. Questo non vuol dire che ogni atteggiamento, ogni comportamento, ogni modo di pensare e di vivere sia indifferente. Io credo che uno dei problemi seri della cultura in cui viviamo è questo: non siamo capaci di dare a ciascuno la propria dignità e sapere che tutti abbiamo la stessa dignità, vedendo però insieme che ciascuno è unico e non tutto è identico. Perché anche questo è discriminante, e la cultura di oggi tende – secondo me – a farci credere che tutto è lo stesso. Questo vale anche nel rapporto tra credenti di fedi diverse. Francamente io non credo che per dialogare veramente con un musulmano, con un buddista…debbo far finta di non essere un cristiano o che la mia fede in Gesù sia un ostacolo, perché se credessi questo – ve lo dico francamente – io non ci starei nella Chiesa, non sarei cristiano! Io credo che Gesù abbia a che fare con tutti: con noi cristiani, ma anche con tutte le altre donne, tutti gli altri uomini, anche con chi ha fedi diverse.
E quanto più io sono davvero credente in Gesù, tanto più sono capace di interloquire e dialogare con tu, magari – concedetemelo, vi provoco anche io un poco – magari chiedendo ai musulmani con cui viviamo qualcosa della loro fede. Sapete cosa ha detto qualcuno di questi che è venuto da altrove, da altre parti del mondo, coi barconi, in un centro Caritas dell’Italia? Ha detto: mi stupisce perché voi sapete darci tutto, fare attenzione a tutti i nostri bisogni, ma ai bisogni della nostra fede non fate attenzione. Mi ha colpito molto questo. Sappiamo dare del pane, sappiamo dare delle case, sappiamo dare un’ospitalità, ma non ci preoccupiamo della fede degli altri. Ecco – permettetemi di provocarvi un po’ – come sarebbe bello se, incontrando dei giovani di altre religioni, noi fossimo capaci di domandare: ma tu in che cosa credi, che cos’è che ti fa vivere? Beh, però – me lo consentite – questo riusciamo a farlo se davvero anche noi siamo credenti e abbiamo qualcosa per cui vivere e, se l’altro fa la stessa domanda, tu sai dire qualche cosa.
Le relazioni difficili: è possibile che finisca un’amicizia e rimanga una fraternità? Quando si è così tanto diversi, magari ci si ostina essere fratelli, amici… ma se c’è successo qualcosa di grave che ha rotto l’amicizia, la fraternità, che si fa?
Sinteticamente direi così. È possibile non essere amici, ma essere fratelli. Ed è possibile – a me è successo nella vita – che tu vivi delle amicizie che ritieni tali e poi devi scoprire che quell’intimità dell’amicizia purtroppo non ci sarà più. Ma questo ci aiuta a vedere che la fraternità non è semplicemente l’amicizia, non è semplicemente il legame con quelli con cui io mi trovo bene. La fraternità è il legame che io mantengo aperto anche con quelli con cui non mi trovo bene, addirittura con quelli che possono avermi ferito, che possono tradirmi, che possono mostrarsi dei miei amici non autentici. Si può essere fratelli senza essere amici. Ma bisogna fare in modo di creare le condizioni, ovunque, dappertutto, perché il più possibile la fraternità sia anche amicizia. E una delle cose da fare è questa: saper riconoscere qualche volta le proprie mancanze, i propri errori. Possiamo essere noi stessi ad aver in qualche modo tradito un’amicizia. Non c’è niente di male ad andare da qualcuno e dirgli: guarda, ho sbagliato, possiamo ricominciare? Ve lo dico con tutto il cuore: ci va molta più forza a dire così che a fare gli offesi o a fare i prepotenti. Ci va molta più forza ad andare da qualcuno e dire: ho sbagliato. E può valere anche il contrario: si può concedere a qualcuno di aver sbagliato, di avermi tradito, di non essere stato fedele, di non aver custodito l’intimità e tuttavia… concedergli una seconda, una terza, una quarta possibilità? Sì. Non perché io sono capace ma perché, se veramente sono un credente in Cristo, so che il primo ad aver bisogno di una seconda, una terza, una quarta possibilità…sono io. E se la ricevo io dal Signore, quale diritto ho di non concederla a qualcun altro? Per meno di questo non si può essere cristiani.
Un grazie grande!
mons. Roberto REPOLE
Arcivescovo di Torino e Vescovo di Susa