C’è un luogo a Torino che da sempre è lo specchio del malessere che cova nelle nuove generazioni, soprattutto nei giovani più fragili, di chi ha avuto di meno dalla vita sia in termini di povertà materiale che esistenziale. È l’Istituto penale minorile «Ferrante Aporti», un microcosmo in cui i disagi dei ragazzi detenuti – amplificati dalla pandemia – rispecchia il degrado delle periferie cittadine o l’assenza di senso di tanti nostri adolescenti alienati dall’illusione dei social o dalla precarietà della nostra società. È qui che l’Arcivescovo Roberto Repole, nella mattinata di giovedì 4 maggio, ha trascorso alcune ore con i minori reclusi durante la sua prima visita al Ferrante, non a caso proprio nei giorni in chi ricorre il suo primo anno dall’ingresso in diocesi.
«Mi può benedire questa mano? Mi sono fatto male, sto passando un brutto periodo». Omar (nome di fantasia), 17 anni, è uno dei 46 giovani detenuti, per la maggior parte stranieri, alcuni figli di immigrati di seconda generazione, altri non accompagnati, giunti nelle coste italiane sui barconi, facile preda dell’illegalità. La domanda, in italiano stentato, è rivolta all’Arcivescovo che si informa da dove viene, lo abbraccia e lo incoraggia a non mollare, ad utilizzare bene il tempo della pena con lo studio e le opportunità di formazione offerte al «Ferrante». E lo benedice, tra la commozione dei compagni. Una benedizione estesa anche agli operatori che ogni giorno si dedicano con la scuola, i laboratori, lo sport al riscatto di questi giovani «nati nelle culle sbagliate». È uno dei numerosi toccanti incontri della visita dell’Arcivescovo (un ragazzo marocchino canta una preghiera in arabo, un altro legge una poesia composta per la mamma «che mi manca») accolto dalla direttrice Simona Vernaglione, dalla vice direttrice Gabriella Picco e dal cappellano, il salesiano don Silvano Oni.
Proprio per ricordare che tra queste mura, da quasi due secoli, ci si imbatte nelle cause del disagio giovanile, l’Arcivescovo è subito stato accompagnato alla targa che ricorda che qui, nel 1855, don Bosco, durante le sue visite alla «Generala» (allora riformatorio per minorenni oggi «Ferrante Aporti) inventò il «sistema preventivo», pilastro dell’impianto educativo del «santo degli oratori». Don Bosco intuì che se ci fosse stata una famiglia solida, una comunità accogliente e una scuola con adulti significativi non ci sarebbero le carceri. E, durante le giornate trascorse al riformatorio con i «giovanetti discoli e pericolanti», studiò soluzioni per prevenire lo sbando in cui versavano migliaia di adolescenti delle periferie torinesi, esattamente come accade oggi. Per questo è tradizione che i cappellani del «Ferrante» siano salesiani, come ha spiegato don Oni – successore del confratello don Domenico Ricca, andato in pensione lo scorso anno dopo oltre 40 anni di servizio – e che ha coinvolto alcuni novizi salesiani che ogni settimana «si fanno le ossa» in questo «oratorio dietro le sbarre».
Prima dell’incontro con i minori nelle aule dove ogni mattina studiano italiano, informatica, frequentano corsi professionali di cucina, ceramica e grafica, la direttrice e i suoi collaboratori hanno spiegato all’Arcivescovo che oggi l’Istituto è a capienza massima con giovani «che stanno scontando pene per reati contro il patrimonio aggravati per episodi di violenza. Fenomeno preoccupante è l’aumento dei reati contro la persona con episodi di rabbia anche di gruppo ingiustificata e un distacco empatico da ciò che si è commesso: uno squarcio desolante sul futuro delle nuove generazioni». Perché i ragazzi reclusi al «Ferrante» sono la punta dell’iceberg dei ragazzi «fuori» che, come ha sottolineato mons. Repole, «sono lo specchio di una società nichilista che non offre prospettive e valori ai giovani».
Ringraziando tutto il personale (insegnanti, agenti, psicologi, educatori, sanitari ed obiettori) per la passione educativa con cui si impegnano per costruire un futuro migliore, perché una volta fuori i ragazzi non tornino a delinquere, l’Arcivescovo ha richiamato l’urgenza di un’alleanza educativa di tutte le forze in campo, tra cui la comunità cristiana, per riempire di senso la vita dei nostri giovani in modi diversi tutti fragili.
Nell’aula di italiano c’era un ragazzo che ha mostrato all’Arcivescovo una foto del Papa. «Lei lo conosce? Lo saluti, gli voglio bene». L’insegnante consegna a mons. Repole una lettera che Papa Francesco ha inviato nei giorni scorsi ai ragazzi in risposta ad un loro scritto accompagnato dalle foto del presepe «multiculturale» che hanno allestito a Natale: accanto alla grotta con Gesù bambino un barcone di giovani migranti con i soccorritori della Croce Rossa che li hanno accolti. Ecco le parole del Papa: «Grazie per aver voluto condividere con me la vostra esperienza, che mi ha commosso. Quello che avete realizzato è un grande segno di speranza… Accettate con coraggio la sfida di sognare. Siate sempre ‘fratelli tutti’ e non perdete mai il sorriso!».
Infine, Pasquale Ippolito, responsabile della formazione professionale di Inforcoop e presidente dell’Associazione di volontariato «Aporti Aperte» lancia un appello ai nostri lettori: «Stiamo allestendo per i ragazzi una sala per la ricreazione: abbiamo bisogno di un calcio balilla e giochi da tavolo e anche di abiti maschili e prodotti per l’igiene personale. Grazie». Per informazioni e donazioni: aporti.aperte@gmail.com – tel.335.6325109.