Repole su Papa Francesco, la modernità e il discernimento

Vaticano – Il torinese don Roberto Repole coordina la collana internazionale di volumi sulla teologia di Bergoglio, presentata lunedì 12 marzo. Pubblichiamo il testo della sua relazione al convegno di presentazione, sul metodo del «discernimento» di fronte alla modernità. Una lettera del Papa emerito Benedetto XVI

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Papa Francesco

Nella Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia, Papa Francesco diceva di aver scelto l’8 dicembre del 2015 come data d’avvio dell’Anno Santo, perchè carica di significato nella storia recente della Chiesa. «Aprirò infatti la Porta Santa», affermava il Papa, «nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II. La Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento. Per lei iniziava un nuovo corso della sua storia. I Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo comprensibile. Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo» (Misericordiae Vultus, n. 4).

Altrove, nella prima intervista concessa da Papa, Francesco sintetizza l’ultimo Concilio come «una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea»; una rilettura che chiede di non essere interrotta, al fine di continuare a rendere udibile il Vangelo per gli uomini di questo nostro tempo. Per questo, afferma sempre Francesco, «la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversbile». Effettivamente, nella sfaccettata interpretazione che si può offrire di un ricco corpo di documenti quale quello prodotto dal Vaticano II e del suo evento, è più che plausibile quella che vede l’ultimo Concilio come un atto ermeneutico con cui la Chiesa, provocata delle istanze provenienti dal mondo moderno, è riandata in maniera rinnovata alla Scrittura e ai tesori della Tradizione cristiana, in modo tale da dischiudere nuovi orizzonti nella stessa comprensione del cristianesimo. Un atto ermeneutico che chiede di essere continuato, affinché avvenga l’incontro tra le donne e gli uomini di ogni tempo e il Vangelo; e si mostri, in atto, come la Verità del cristianesimo implichi la libera adesione dell’uomo, dall’interno del contesto socio-culturale in cui si trova.

Nella maniera forse più plastica, tale operazione ermeneutica nell’orizzonte del tempo moderno è offerta ed avviata con il proemio di Dignitatis humanae, documento con il quale, a detta di alcuni, si è fatto più palese il rapporto nuovo che la Chiesa ha intrattenuto con la modernità. In esso si afferma che «in questa nostra età gli uomini diventano sempre più consapevoli della dignità della persona umana e cresce il numero di coloro i quali esigono che gli uomini nell’agire seguano la loro iniziativa e godano di una libertà responsabile, non mossi da coercizione bensì guidati dalla coscienza del dovere». E poco oltre, dopo aver esposto questa novità dei tempi e le istanze concernenti la dignità dell’uomo e la sua libertà, il Concilio prosegue: «Considerando diligentemente queste aspirazioni degli animi e proponendosi di dichiarare quanto siano conformi alla verità e alla giustizia, questo Concilio vaticano esamina la sacra tradizione e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi sempre in armonia con quelli antichi». Ci si lascia, dunque, interpellare da due istanze rilevanti della modernità, la proclamazione della dignità umana e la libertà religiosa, come occasione per rileggere nel suo complesso la Parola di Dio attestata dalla Scrittura e interpretata più volte nella Tradizione della Chiesa.

Si tratta di un’operazione risultata possibile sulla base della ricchezza scaturita dal rinnovamento teologico che aveva contrassegnato già l’800 e, soprattutto, il Novecento. Si pensi, solo per esemplificare, a quanto prodotto dai teologi della cosiddetta théologie nouvelle, i quali avevano risposto alla sfida di rendere udibile il Vangelo al cospetto delle grandi svolte culturali del loro tempo, con un grande sforzo di ressourcement, di ritorno alle fonti, che ha permesso di percepire come il cristianesimo fosse ben più ricco di quello stilizzato in certa teologia neoscolastica. Basti citare, tra tutti, il poderoso lavoro del padre de Lubac, così significativo, a suo dire, nella formazione dello stesso Papa Francesco. Ma si tratta, altresì, di una operazione nella quale la Chiesa si impegna in un atto di vero e proprio discernimento di quanto della modernità può e deve essere assunto e di ciò rispetto al quale occorre reagire con voce profetica. Basterebbe rileggere, a distanza di cinquant’anni, alcuni passaggi di Gaudium et spes o della già citata Dignitatis humanae, per accorgersi che al cospetto di istanze, tipicamente moderne quali l’autonomia delle realtà terrene, la libertà, la democrazia dei moderni stati, la Chiesa opera un atto di discernimento con il quale riconosce la bontà di alcuni aspetti e prende le distanze da possibili esiti antievangelici e, alla fine, disumanizzanti.

Mi pare che, anche alla luce degli undici volumi della nuova collana sulla teologia del Papa, si possa dire che nel Magistero di Francesco emerga la stessa esigenza di un discernimento ecclesiale rispetto alla cultura tardo-moderna dentro cui occorre vivere e trasmettere il Vangelo.

Il termine «discernimento» è certamente importante nell’insegnamento del Papa: la spiritualità ignaziana nella quale è stato formato e quanto offerto in particolare in Amoris laetitia lo rendono evidente. Non deve tuttavia sfuggire come, a ben vedere, non si tratti di qualcosa che concerne solo alcune specifiche questioni o situazioni determinate e personali. Molto del suo insegnamento può essere letto come espressione di un discernimento ecclesiale su istanze fondamentali del tempo moderno o tardo-moderno che stiamo vivendo. Egli sembra lasciarsi profondamente interpellare da alcune svolte di fondo del tempo attuale, che vive ancora sia pur in modo rinnovato di una cultura moderna, per far emergere con più decisione alcuni tratti del Vangelo particolarmente capaci di interpellare gli uomini di oggi ed operare, così, un discernimento all’interno della cultura contemporanea.

Dato il peso che ciò dovrebbe avere proprio per il compito che i teologi sono chiamati a svolgere (così come è stato peraltro tratteggiato dal Pontefice, tanto nel Discorso offerto al Congresso internazionale di teologia presso la Pontifica Università cattolica argentina quanto nel messaggio rivolto, più di recente, all’Associazione teologica italiana), vale la pena offrire due semplici esempi di ciò.

Da Kant in avanti, una delle istanze tipiche della modernità è rinvenibile in un forte senso dell’autonomia dell’uomo e dalla sua soggettività. Si tratta di una caratteristica che investe anche l’epoca contemporanea, accresciutasi peraltro a motivo del sempre più diffuso sviluppo scientifico e tecnico. Francesco sembra partire da qui per ripensare la stessa realtà di Dio e il rapporto che Egli intrattiene con il creato e, specificamente, con l’uomo, facendo ovviamente tesoro di quanto il pensiero cristiano può offrire, a cominciare dalla lezione di Tommaso d’Aquino. Sintomatico di ciò è quanto espresso in Laudato si’ al n. 80 in cui, nell’orizzonte di una concezione della creazione continuata, Francesco arriva a parlare del Dio Creatore che «è presente nel più intimo di ogni cosa senza condizionare l’autonomia della sua creatura». Dio è, dunque, presente nel mondo: non in un modo magico, però, e incomprensibile alla cultura moderna dentro cui viviamo, bensì assicurando l’autonomia delle realtà create. E ciò assume una singolarità nel caso dell’uomo, che è chiamato ad essere collaboratore di Dio e del suo agire all’interno del mondo, Vi appare un Dio il cui avvicinarsi all’uomo lo rende sempre più attivo e responsabile.

Dice il Papa che «Dio vuole agire con noi e contare sulla nostra collaborazione» (LS 80); l’uomo è visto pertanto come coinvolto nell’azione con cui Dio crea e si prende cura delle realtà del mondo. Questo è capace di gettare nuova luce, peraltro, sulla Provvidenza di Dio e di farla percepire in modo nuovo L’autonomia umana deve essere però profeticamente criticata, quando si perverte in una indipendenza assoluta anche per l’uomo moderno.

Nell’Angelus del 2 marzo del 2014, Francesco diceva che «la Provvidenza di Dio passa attraverso il nostro servizio agli altri, il nostro condividere con gli altri. Se ognuno di noi non accumula ricchezze soltanto per sé ma le mette al servizio degli altri, in questo caso la Provvidenza di Dio si rende visibile in questo gesto di solidarietà». Dio è, dunque, provvidente; ma tale provvidenza è quella del Dio che si rende presente all’uomo rendendolo suo collaboratore, coinvolgendolo nella sua opera salvifica nei confronti del mondo creato.

Da ciò si dispiega un atto di discernimento in ordine a quell’autonomia dell’uomo, così centrale per la cultura moderna. Essa è buona e ha valore quando rende l’uomo collaboratore di Dio, nella cura della casa comune e nell’integrazione di ogni uomo nella realtà del Regno, che Dio prepara per tutti: a cominciare da chi è ai margini. Tale autonomia deve essere però profeticamente criticata, quando si perverte in una indipendenza assoluta, sciolta da ogni legame con Dio, con il cosmo e con gli altri, dimentica della sua creaturalità e priva di ogni responsabilità. La forte critica nei confronti del mito tecnocratico, della mentalità che fa accostare l’uomo al cosmo e agli altri secondo l’atteggiamento del dominatore, del consumatore e dello sfruttatore, così come la netta denuncia del relativismo pratico, esprimono bene l’atto di discernimento compiuto da Francesco rispetto alla cultura attuale.

Il secondo esempio può essere tratto da un altro aspetto della cultura attuale, la differenziazione e l’autonomia delle diverse sfere sociali, quali la politica, l’economia o la scienza, che oggi tende a svilupparsi nell’orizzonte di un mondo globalizzato contrassegnato, però, da un pluralismo religioso, come recenti studi quali quello di Peter Berger («I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo», Emi, 2017) mostrano con lucidità. Francesco sembra muovere dalla consapevolezza che un tale humus culturale rappresenti una occasione per ripensare la realtà della Chiesa e la sua missione. In un tale contesto, quest’ultima ridiventa centrale; è chiamata a rendere udibile anzitutto il cuore cristologico-trinitario del Vangelo; e non può certo avvenire contando sulle masse o in un collateralismo con poteri mondani, ma, come si sostiene diffusamente in Evangelii gaudium, nel contatto da persona a persona.

La Chiesa stessa può poi apparire come contrassegnata da una unità plurale, in cui le diverse Chiese sono chiamate ad essere soggetti attivi nel compito missionario e la sinodalità si manifesta come dinamica ecclesiale particolarmente feconda in questo oggi.

Da ciò si dispiega, ancora una volta, un atto di discernimento, capace di vedere tutto il positivo di un mondo in cui le diverse sfere si sono autonomizzate, senza rinunciare tuttavia a denunciare con forza i danni cui può indurre il «totalitarismo» di qualche dimensione. È il caso di certo economicismo, che si nutre di una idolatria del denaro e genera dei veri e propri scarti, anche delle persone. Rispetto a questo «paganesimo individualista», secondo la dicitura di Evangelii gaudium 195, la Chiesa è chiamata a pronunciare profeticamente il suo no! Si tratta di due semplici esempi di un Magistero che, in questo, è certamente debitore di tutto uno sviluppo teologico precedente e susseguente il Concilio e che rappresenta, al contempo, un forte stimolo per i teologi di oggi a proseguire secondo questa medesima strada. Come ha detto lo stesso Papa rivolgendosi proprio ai teologi, «il cammino è la riflessione, il discernimento, prendere molto sul serio la Tradizione ecclesiale e molto sul serio la realtà, facendole dialogare». Un invito che la teologia deve oggi assumere con rinnovato coraggio. Perché ci sono due modi, mi pare, di vanificare il servizio teologico: quello di un fissismo che non è realmente tradizionale, in quanto non trasmette nulla; e quello di un adattamento al tempo e alla cultura, tale per cui non appaia più la novità salvifica del Vangelo di Cristo.

L’insegnamento di Francesco traccia un sentiero per non cedere a nessuna delle due tentazioni e per ricercare una teologia che sia davvero all’altezza della sovrabbondante ricchezza di un Vangelo che è per tutti, anche per degli uomini che vivono questo nostro tempo.

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