«Sono passato e non c’era nessuno. Silenzio attorno e dentro le case». Per chi non se lo ricorda, si tratta dell’incipit delle «Stagioni di Giacomo» di Mario Rigoni Stern, uscito nel 1995. Un libro prezioso, scritto sul filo della memoria. Un’apertura narrativa che ti avvolge e che, in un attimo, ti scaraventa dentro le minuscole comunità disseminate sull’Altopiano di Asiago, una decina d’anni dopo la fine della Prima guerra mondiale. Un incipit che attinge alla narrazione orale, pescando nella tecnica dei racconti che, nel mondo alpino, nelle stalle o davanti al focolare, punteggiavano le ore di veglia delle sere d’autunno e d’inverno.
Buona parte degli scritti montanari di Rigoni Stern sono la messa in scena di quell’oralità. Una scrittura che accoglieva neve, pioggia, siccità, boschi e legna, camini e focolari, polenta e patate, mele e verze dell’orto, gli animali delle stalle e quelli lasciati liberi nei pascoli. La narrazione del vecchio «Sergente nella neve», di cui pochi giorni fa si sono ricordati i dieci anni dalla morte, sgorgava dall’esperienza diretta, dalla vita quotidiana, dagli oggetti e dagli elementi del mondo naturale. Quanto Rigoni raccontava di un bosco, sentivi l’odore degli alberi, la ruvidezza delle cortecce. Se parlava di transumanza, ti arrivava alle narici l’afrore delle bestie, il profumo delle erbe estive, del latte tiepido di mungitura, E lo stesso si può dire dei momenti di convivialità, del vino, delle storie di recuperanti, contrabbandieri, cacciatori, emigranti, giovani andati soldato lontano da casa.
Con gli anni, quei racconti si sono trasformati in un ciclo narrativo. Hanno fatto, e fanno, letteratura. Ma accanto ai classici che si sono cimentati con la montagna, da Guy de Maupassant a Primo Levi, da Achille Giovanni Cagna a Fosco Maraini, da Kurt Diemberger e Walter Bonatti (che non si sono limitati al solo alpinismo), fino ai contemporanei Mauro Corona, Enrico Camanni, Marco Albino Ferrari, Erminio Ferrari (non perdete le sue storie di «spalloni» nell’Ossola) o la giovane antropologa Irene Borgna (il suo splendido «Pastore di stambecchi» è in libreria da poche settimane), ci sono autori poco noti ma assolutamente meritevoli di essere conosciuti.
Faccio solo un esempio. Si tratta di un libro non più in circolazione, che credo si possa ormai trovare solo su qualche bancarella dell’usato. È un volumetto uscito nel 1975 per le Arti grafiche friulane di Udine. Il suo autore si chiama Aldo Barbina (l’aletta del volume dice che è nato nel 1934 a Udine e che, conseguita la laurea in Scienze forestali, è stato capo dell’Ispettorato delle foreste di Udine), e il titolo è «Ho visto montagne». Raccoglie una dozzina di racconti brevi (il libro ha un centinaio di pagine). Li ho divorati e sono rimasto fulminato. Scrittura essenziale, ordinata, asciutta, ogni parola al posto giusto, mai un aggettivo di troppo. Una confidenza stretta con gli alberi, i boschi, i prati. Sono la voce della montagna che ho ascoltato tante volte da bambino, quando nelle lunghe sere autunnali, sulla panca di legno davanti a casa, assieme ad altri ragazzini come me mi lasciavo incantare dai racconti di un vecchio che, con l’aiuto della voce e con il ritmo della parola, riusciva a farmi sfilare davanti agli occhi della mente storie fantastiche. E soprattutto mi insegnava a leggere il grande libro della montagna in un modo così preciso e ricco di sorprese che nemmeno la maestra (che pure era di origine valligiana) sarebbe stata capace di imitare.