Rsa ancora senza abbracci

La dura pena degli anziani – Il Governo ha disposto la riapertura delle visite, ma le strutture frenano, ammettono i famigliari con il contagocce e a distanza di sicurezza. Una sofferenza che non trova fine

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Visite con il contagocce. Distanziamento fisico come ad inizio anno, quindi nessun abbraccio, se non con particolari, eccezionalissime deroghe. Interdetto l’accesso a stanze, sale comuni, luoghi di vita dei malati. È passato più di un mese dall’ordinanza dell’8 maggio che il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha firmato per la riapertura delle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) ai famigliari dei degenti, ma le condizioni di relazione tra pazienti e loro cari non sono cambiate nelle strutture di ricovero, o hanno subito variazioni modeste, lontanissime dalla condizione di normalità.

Lo segnalano i famigliari dei ricoverati, ne rilanciano il messaggio le associazioni di rappresentanza dei malati. L’obiettivo: rilanciare la discussione sul tema –   finita in sordina dopo alcune settimane di rilievo nazionale – in vista della scadenza dell’ordinanza, valida fino a fine luglio. Cosa succederà dopo? Una parte della risposta dipenderà dalla situazione generale dei contagi da Covid-19, ma il nodo che sta a cuore alle famiglie è il recupero della socialità piena con i loro cari, interrotta da quasi 500 giorni, tra l’altro vaccinati contro il Covid-19 con percentuali vicine al 100%.

Certificato verde – L’ordinanza del Ministro prevede che l’accesso alle Rsa sia vincolato al Certificato verde, cioè alle due dosi di vaccino anti Covid, oppure ad un tampone rapido negativo o alla certificazione di  avvenuta guarigione entro sei mesi. «I problemi vengono dopo», dice Michele Assandri, presidente di Anaste Piemonte, l’associazione di categoria che raggruppa un terzo dei posti letto Rsa in Piemonte, «perché i direttori delle strutture temono una ripartenza dei contagi e conseguenti azioni legali. Nell’ordinanza del Ministro doveva essere tolta la parte di discrezionalità affidata ai direttori: se c’è un elenco di regole validate, il Governo pretenda che si applichino, non scarichi sui singoli gestori la responsabilità».

La limitazione ad oltranza dei contatti ha, quindi, motivi poco clinici e molto di difesa giuridica preventiva. «Ci sono anche aspetti strutturali come l’assenza di aree esterne o di percorsi separati per i visitatori ma», ammette Assandri, «il nodo cruciale è la norma. E il buon senso. Nelle strutture in cui sono direttore, nell’alessandrino, permettiamo gli abbracci all’aperto con sanificazione, ma so che è un’eccezione nel panorama delle Rsa piemontesi».

Mezz’ora a settimana – Qualche esempio. I volontari dell’Avo segnalano in una struttura alla Crocetta dove prestano servizio che «per incontrare la mamma in presenza il figlio deve sottoporsi a tampone, anche se vaccinato. L’incontro avviene senza contatto, a due tavoli di distanza, con la presenza di un operatore durante tutto il colloquio». Non pochi tra gli osservatori del settore e i rappresentanti delle famiglie dei malati equiparano queste modalità a quelle della visita in carcere, «per persone che non stanno scontando una pena e che, anzi, avrebbero necessità di relazioni affettive aumentate».

Una grande Rsa di Rivoli ha indicato in 30 minuti il tempo di visita massimo settimanale, con mascherina Ffp2 sempre indossata e a distanza. Impossibile mantenere relazioni con pazienti con demenza (sono moltissimi in Rsa), difficile con gli altri, anche a causa di problemi d’udito e di vista che compromettono la capacità di comprensione. A Borgaro «contatti fisici consentiti solo ai vaccinati», mentre per gli altri visitatori distanziamento di due metri, ma nel quartiere Santa Rita, in una delle poche Rsa ancora gestite dall’Asl, le visite fino alla settimana scorsa si svolgevano ancora dietro la finestra, venti minuti a settimana.

Ospedali e case di cura –  «L’accesso dei parenti alle Rsa è fondamentale per la qualità della cura dei pazienti», dice la presidente della Fondazione promozione sociale, Maria Grazia Breda, «il controllo delle esigenze dei malati che svolgono i parenti è spesso insostituibile, senza contare che le strutture hanno interrotto per lungo tempo non solo le visite, ma anche le prestazioni esterne di animazione, parrucchieri, podologi e spesso anche le visite specialistiche perché soggette a rientri in struttura con lunghe quarantene». Il tema dell’accesso dei parenti riguarda anche gli altri luoghi di degenza, spesso più preclusi al pubblico, come le cliniche di riabilitazione e lungodegenza o gli stessi ospedali. Basti dire che nel grande complesso della Città della Salute non sono permessi gli accessi dei famigliari nei consueti orari di visita ma, al massimo, il cambio della biancheria sporca ad un operatore e il colloquio telefonico con i medici. Una separazione che pregiudica anche il rapporto delle famiglie dei malati con gli operatori del reparto, un danno grave, specialmente per i degenti non autosufficienti o non capaci di comunicare.

Centri Diurni – Una nota positiva arriva per i Centri diurni per persone con disabilità grave. Il servizio, da un anno a questa parte, era riaperto con orari limitati. Grande il peso sulle famiglie – non pochi genitori anziani – per supplire al dimezzamento delle ore di frequenza. L’Unione per la tutela delle persone con disabilità intellettiva aveva presentato qualche mese fa ricorso al Tribunale di Torino: «Il Centro diurno è un livello essenziale delle prestazioni, l’Asl non può negarlo», spiega il presidente, Vincenzo Bozza, «se non ci sono gli spazi sufficienti all’interno dei Centri, venga corrisposto un contributo economico alle famiglie per la presa in carico a domicilio».

Complice la mobilitazione delle famiglie la Regione è intervenuta il 9 giugno con l’aggiornamento delle linee di indirizzo: non più nuclei da 5 (operatori e utenti) per ambiente, ma nel caso di personale e fruitori del servizio vaccinati oltre la quota del 95%, ripresa delle attività con le normali precauzioni della vita quotidiana.

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