È netto l’appello dei gestori delle Residenze sanitarie assistenziali piemontesi alla Regione Piemonte: «Non inviate pazienti Covid positivi in Rsa, non siamo strutture pensate per gestire pazienti di quella complessità. E non riducete le disponibilità dei posti letto all’interno dei reparti ospedalieri a loro dedicati», perché il contagio in Rsa si scaricherà presto sui nosocomi. I gestori delle strutture che hanno in carico 29mila anziani malati non autosufficienti e impiegano 13 mila operatori hanno contato, solo negli ultimi giorni, 4 mila casi Covid positivi nelle loro strutture, che si sommano alle centinaia di morti già registrati nelle scorse settimane. Numeri che contribuiscono a dare forma a quel «caso Piemonte» che ha portato la Regione al per nulla invidiabile primato di prima in Italia per numero di casi rapportati alla popolazione, perfino sopra il dato lombardo: al 27 aprile i malati sono 356 ogni centomila abitanti (uno ogni 281 persone), il doppio della media nazionale.
Malati abbandonati – Per Michele Assandri, presidente di Anaste Piemonte, una delle organizzazioni di categoria che raggruppa circa un terzo delle Rsa piemontesi, «sono insostenibili arrivi di pazienti affetti da Covid, cui la Regione riconosce solo 46 minuti di infermiere o fisioterapista al giorno e nessun intervento terapeutico per le restanti 23 ore. L’Unità di crisi ci comunica che gli interventi ulteriori di medici e infermieri saranno addebitati alle strutture stesse: una situazione che non esiste altrove in Italia e che non tutela la salute dei pazienti».
È vero che molti osservatori hanno imputato la prima fase dei contagi in Rsa alla carenza di dispositivi di protezione che dovevano essere in dotazione alle singole strutture, ma la sensazione degli operatori è quella che loro e i malati siano stati abbandonati dalla Regione. L’assessore alla Sanità, Luigi Icardi, ha tentato più volte di prendere le distanze dalle Rsa per anziani malati, definendole «strutture private, con una loro autonomia gestionale». Eppure, si tratta di soggetti equiparati all’ente pubblico e sotto la direzione dell’assessorato alla Sanità in quanto assicurano prestazioni di servizio essenziale in accreditamento con le Aziende sanitarie. In più la Regione ha deliberato – il 20 marzo – il depotenziamento del loro organico e la possibilità di inviare pazienti Covid positivi, una scelta giudicata subito, da molti osservatori, potenzialmente letale per i degenti – deboli, malati non autosufficienti gravi – già presenti in struttura.
Il 10 aprile erano stati gli Ordini dei Medici delle Provincie del Piemonte a sottolinere, da parte della Regione, «la mancanza fin da subito di una strategia preventiva ed operativa di valutazione delle situazioni più critiche, dove era facilmente pensabile che il contagio avvenisse e soprattutto dilagasse: non si sono messe in atto nelle strutture residenziali che ospitano malati in età avanzata misure rigorose di controllo e di gestione dei casi emergenti». Valutazioni pesanti sull’operato dell’amministrazione regionale e dell’Unità di crisi, che prospettava scenari drammatici, purtroppo avveratisi: «Una non necessaria e prevedibile diffusione del contagio e un incremento, accanto ai ricoveri e alle morti inevitabili, di ricoveri e morti evitabili».
Bilancio e piano di rientro – Per giustificare i poderosi tagli inferti alla sanità pubblica piemontese, le ultime due Giunte (guidate da Roberto Cota, Lega e Sergio Chiamparino, Partito democratico) si sono sempre appellate al piano di rientro sanitario che ha interessato il Piemonte tra il 2010 e il 2016, unica tra le regioni del Centro-Nord. Nello stesso periodo, il personale sanitario è sceso di oltre 3.800 unità, i letti di quasi 6 mila posti (crollando da 4,5 a 3,1 ogni mille abitanti), gli ospedali da 44 a 36. Anche la Giunta Cirio pare avere scelto questa linea difensiva, imputando le mancanze all’eredità del passato.
La vicenda del deficit, tuttavia, è tutt’altro che cristallina. Già la relazione 2016 della Procura della Corte dei Conti piemontese aveva sollevato fortissimi interrogativi sulle spese della Regione, imputando non a quelle sanitarie, bensì a quelle extra-sanitarie il disavanzo, ammonendo inoltre l’ente a «perimetrare», cioè a sorvegliare evitando che se ne perdessero le tracce, almeno 4,3 miliardi di fondi che da Roma giungevano per spese destinate al Servizio sanitario regionale e che invece, poiché non vincolate, erano probabilmente state utilizzate per altri capitoli di spesa.
L’Ordine dei Medici di Torino in un intervento di Rosella Zerbi, oggi segretaria dell’Ordine, e Giorgio Cavallero, dirigente del sindacato medico Anaao, ad inizio 2017 precisò ancora meglio la questione, incrociando i dati noti con l’Indagine sulla sostenibilità del Servizio sanitario condotta dal Senato: «Per anni è stata convinzione comune che il bilancio della Sanità regionale fosse la causa dell’incredibile ‘buco nero’ (disavanzo) piemontese, ma analisi approfondite dimostrano che la Sanità regionale non è mai stata in deficit dal 2005». Dunque, il debito era, in realtà, dovuto allo squilibrio di altre voci del bilancio regionale? Non sarebbe il caso che chi ha avuto la responsabilità di guidare la Regione in quegli anni facesse chiarezza? È giudizio di osservatori esperti della questione che passare per quest’operazione «trasparenza», insieme a quella sulla riorganizzazione delle Rsa e sulle cure domiciliari, sia necessario per la concreta difesa del Servizio sanitario regionale e delle sue garanzie per tutti i malati: giovani, adulti, anziani; acuti e cronici; autosufficienti e non.