“San Giovanni Battista, patrono di Torino ci indica Cristo come possibilità di trovare senso alla nostra vita. La nostra città in cerca di identità e di senso ne ha bisogno. Seguiamo le indicazioni del nostro patrono”. Questo in sintesi il messaggio centrale dell’omelia dell’Arcivescovo mons. Roberto Repole pronunciata durante la Messa solenne – tra i concelebranti l’Arcivescovo emerito mons. Cesare Nosiglia – stamane, sabato 24 giugno festa liturgica di san Giovanni.
Nella cattedrale, affollata molto prima dell’inizio della Messa iniziata alle 10.30, famiglie con bambini, anziani, numerosi ‘nuovi torinesi’ emigrati a Torino in cerca di una vita migliore. Tra i presenti, accanto ai gonfaloni della Città di Torino, della Città Metropolitana e della Regione Piemonte, il vicesindaco Michela Favaro in rappresentanza della città, il presidente del Consiglio regionale Stefano Allasia, il prefetto Raffaele Ruberto, il questore Vincenzo Chiarambino, le autorità militari e la Famija Turineisa con le maschere torinesi Gianduja e Giacometta che hanno distribuito il pane della carità. Con i sacerdoti concelebranti e i diaconi hanno partecipato anche i rappresentanti della Chiesa Ortodossa.

Pubblichiamo il testo trascritto dalla registrazione audio dell’omelia di mons. Roberto Repole, Arcivescovo di Torino e Vescovo di Susa,
pronunciata nella mattinata di sabato 24 giugno in Cattedrale in occasione della festa liturgica di san Giovanni Battista, patrono della Città di Torino
Cattedrale di Torino, 24 giugno 2023
Entriamo nel vivo della festa di questa nostra Torino, città nobile e gentile. Entriamo nel cuore della festa di questa nostra città che è stata e – dobbiamo dirlo – continua ad essere per molti aspetti una città generosa e ospitale. E tuttavia con altrettanta onestà dobbiamo dire che entriamo nel cuore della festa di una città che da decenni vive una profonda crisi di identità, che anche soltanto uno sguardo alla superficie e qualche dato statistico ci fa intravedere. Nel settimanale diocesano «La Voce E il Tempo» di questi giorni c’è un reportage molto interessante sul mutamento della nostra città. Mentre nel 1951 la ricchezza era prodotta per il 65% dall’industria e il terziario offriva soltanto il 28%, nel 2020 i dati si sono completamente ribaltati: il 75% è dovuto al terziario e solo un magro 25% all’industria.
Ma sappiamo molto bene che non sarà il dato meramente economico a fornirci la possibilità di intravedere una nuova identità per questa città. Anzi, più spingiamo sull’aspetto e la dimensione economica chiusa in se stessa, più spingiamo sullo sviluppo tecnologico chiuso in se stesso, e più si ingenerano dei drammi che non riusciamo neppure più a guardare. Si scavano dei vuoti profondi nel cuore e nelle vite delle persone. Si generano delle solitudini spesso invalicabili. Si producono forme di depressione che creano a volte anche disgusto della vita. E quel che è drammatico – lo sappiamo se abbiamo ancora un po’ di dimestichezza con la realtà – è che questo sta cominciando ad accadere sin dalla più tenera età.
Abbiamo bisogno di altro per trovare un’identità. Non ci possiamo accontentare di quella che Tommaso d’Aquino, nella Summa contra Gentiles molti secoli fa, chiamava la «beatitudine animale», cioè quella felicità che sta semplicemente nel soddisfacimento del bisogno sensoriale o animale. Perché abbiamo sete di verità, abbiamo sete di trascendenza, abbiamo sete di senso per trovare un’identità profonda, anche come città, anche come collettività. Forse è giunto il momento di dirci che l’uomo non è semplicemente una scimmia che sta dritta: è qualcosa di molto di più, anche quando vive insieme ad altri uomini, anche quando forma una città e una società.
E per questo ci fa un gran bene celebrare la nostra festa facendo la memoria di Giovanni il Battista, che è stato profondamente concentrato su Cristo, catturato – vorrei dire – da Cristo, come la verità, il senso, l’espressione della trascendenza e che, proprio per questo, ha saputo indicarlo come la verità e la salvezza non soltanto di alcuni ma di tutti, non soltanto di certi uomini ma di tutta l’umanità, di tutti i tempi. All’inizio del mese ho avuto la grazia di essere a Toledo dove c’è un dipinto di Caravaggio che raffigura appunto Giovanni il Battista giovane, nel deserto, che ha ai piedi l’agnello, evidentemente Cristo, e tutto il suo sguardo è concentrato lì, come dire che lì c’è il motivo della sua vita e lì c’è anche il motivo della possibilità che egli ha di donare la vita, di morire. Ma sappiamo altrettanto bene che molta iconografia ci presenta Giovanni il Battista con il dito puntato a indicare Cristo.
Ecco, facciamo bene a celebrare la memoria di Giovanni il Battista, anzitutto come Chiesa e come cristiani di Torino, per riprendere lo slancio e il coraggio di vivere nella città degli uomini, in questa città degli uomini, pienamente concentrati su Cristo, ma capaci di indicarlo come quella verità, quel senso, quella trascendenza di cui questa città ha un infinito bisogno. Dei cristiani e una Chiesa che indicano Cristo anche per la vita civile, svolgono un servizio grandissimo di carità sociale e politica. C’è stata, c’è e ci sarà sempre una carità che mette le pezze – potremmo dire – a certi piccoli o grandi disastri delle nostre società occidentali. Continueremo a farlo, l’abbiamo sempre fatto. Ma c’è bisogno di un’altra carità che i cristiani devono offrire a questa città ed è la carità di indicare Cristo e, indicando Cristo, mostrare e dare voce a tutto ciò che le ideologie imperanti troppo spesso non sanno mostrare e a cui non sanno dare voce.
Penso alla debolezza, allo sconcerto, alla fragilità di tanti bimbi e di tanti ragazzi che debbono venir su senza poter contare sull’affetto certo e rimanendo qualche volta nell’insicurezza, nella precarietà strutturale della vita. Penso alla profonda solitudine di tante donne e uomini anziani, che lo sviluppo tecnologico a volte rende ancora più amara. Non lo diciamo mai, ma più cresce la tecnologia e più tanti anziani si trovano forestieri dentro questo mondo. Ieri un amico medico mi ha detto una cosa che mi ha fatto rabbrividire: ci sono degli anziani soli che rinunciano a fare degli esami medici, di cui avrebbero bisogno, perché non hanno nessuno che li possa aiutare a disbrigarsi nella burocrazia tecnocratica in cui viviamo.
È questa la società e il futuro che vogliamo oppure vogliamo anche altro? E penso al dramma che vivono alcuni giovani. Mi colpisce che cresca il livello di autolesionismo nei giovani, qualcosa che altre generazioni non hanno conosciuto, che ci dovrebbe far pensare. Ma qualche volta cresce anche l’aggressività nei confronti di altri. Viviamo in una città che non soltanto vive una crisi di natalità – lo sappiamo – ma dove i dati ci dicono che la popolazione carceraria giovanile cresce. Forse qui dentro c’è un urlo, una richiesta di senso che dobbiamo ascoltare.
Ecco, sarebbe bello che ci fossero dei cristiani e una Chiesa che con Giovanni Battista, come Giovanni Battista, sanno ancora indicare Cristo come colui che ci dà delle parole per vedere ciò che alcune ideologie non vogliono vedere, ma anche per riconoscere che Cristo è il Vangelo; possono essere promotori di società, di cittadinanza, di vita comune. Questo la Chiesa lo ha sempre fatto. Alcune visioni un po’ miopi e anche poco informate a volte non lo sanno, ma se viviamo in un tempo in cui ormai la scuola c’è – grazie a Dio – per tutti, la sanità c’è – grazie a Dio – per tutti, forse lo dobbiamo anche alla carità fattiva della Chiesa, dei cristiani.
Ma oggi c’è bisogno che noi riprendiamo fiducia, parresia, nel dire che Cristo può essere colui che dà senso alle nostre vite e che dà senso e identità anche alle nostre città, ai nostri paesi. Se lo facciamo, io credo che si potrà catturare l’attenzione di tutte le donne e gli uomini di buona volontà, di tutti quelli che vogliono bene a questa città e che già si stanno impegnando tantissimo per il bene di questa città, affinché si riscopra la necessità di una cultura che non sia soltanto una cultura che tende a disintegrare quello che c’è, ma di una cultura costruttiva perché dà prospettive di verità, di trascendenza e di senso.
Abbiamo bisogno di una città con le strade che funzionano, certo. Abbiamo bisogno di una città dove ci siano degli ospedali che ci permettano di curarci bene, certo. Abbiamo bisogno di una città che ci offra case ospitali, che dia lavoro a tutti, certo. Ma quando avremo anche tutto questo, non avremo ancora fatto un passo definitivo verso qualcosa d’altro che la «beatitudine bestiale». Sarebbe bello riprendere confidenza con Giovanni il Battista, che ci indica Cristo come possibilità di un senso, di una verità, di una trascendenza, che ci fa vivere insieme in modi rinnovati e molto più belli. Qualcosa che una poetessa dell’altro secolo, Antonia Pozzi, mi pare abbia colto con fiducia e con speranza, la stessa fiducia e speranza che possiamo continuare ad avere noi. Scriveva così:
Signore, tu lo senti
ch’io non ho voce più
per ridire
il tuo canto segreto.
Signore, tu lo vedi
ch’io non ho occhi più
per i tuoi cieli, per le nuvole tue
consolatrici.
Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te
ch’io riviva.
Perché tu sai, Signore,
che in un tempo lontano
anch’io tenni nel cuore
tutto un lago, un gran lago,
specchio di Te.
Ma tutta l’acqua mi fu bevuta,
o Dio,
ed ora dentro il cuore
ho una caverna vuota,
cieca di Te.
Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te,
ch’io riviva.
Può darsi che certe volte nel cuore, anche nel cuore della nostra città, abbiamo come una caverna vuota, tante sono le lacrime che versiamo, ma c’è sempre la speranza e la fiducia che Cristo, indicato da Giovanni il Battista, riempia i cuori degli uomini e delle nostre
+ Roberto Repole