San Massimo, questo sconosciuto

Protovescovo di Torino – San Massimo, la cui festa liturgica ricorre il 25 giugno, è praticamente sconosciuto. Poche le notizie su di lui ma formidabile è la raccolta di circa 90 «Sermoni» dai quali emerge il legame profondo e vitale del Vescovo con la sua città

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San Massimo, protovescovo di Torino

«San Massimo, che la tradizione indica primo vescovo conosciuto di Torino, è un grande Padre della Chiesa che, con Sant’Eusebio di Vercelli e Sant’Ambrogio di Milano, nel IV-V secolo contribuì decisamente alla diffusione e al consolidamento del Cristianesimo nell’Italia settentrionale. Lo incontriamo vescovo a Torino nel 398, un anno dopo la morte di Ambrogio».

Il 31 ottobre 2007 Papa Benedetto XVI dedica la catechesi dell’udienza del mercoledì al protovescovo che Torino festeggia il 25 giugno. Purtroppo è praticamente sconosciuto. Poche le notizie su di lui ma formidabile è la raccolta di circa 90 «Sermoni» dai quali emerge «il legame profondo e vitale del vescovo con la sua città, con un evidente punto di contatto tra il ministero di Ambrogio e quello di Massimo». La parola di Papa Benedetto avrebbe fatto felice l’indimenticato arcivescovo di Torino, cardinale Michele Pellegrino, grande patrologo, che nel suo episcopato (1965-77) rilanciò nella Chiesa torinese lo studio, la conoscenza, l’amore a San Massimo, che non gode della fama e della devozione tributate da Milano a Sant’Ambrogio e da Vercelli a Sant’Eusebio.

Osserva il Pontefice: «Nelle gravi tensioni che turbavano l’ordinata convivenza civile, riuscì a coagulare il popolo cristiano attorno alla sua persona di pastore e maestro. La città era minacciata da gruppi sparsi di barbari che, entrati dai valichi orientali, si spingevano fino alle Alpi occidentali. Per questo Torino era presidiata da guarnigioni militari e diventava, nei momenti critici, il rifugio delle popolazioni in fuga dalle campagne e dai centri urbani sguarniti di protezione. Gli interventi di Massimo testimoniano l’impegno di reagire al degrado civile e alla disgregazione».

Nei «Sermoni» si rivolge «a un nucleo selezionato della comunità cristiana di Torino, costituito da ricchi proprietari terrieri, che avevano i possedimenti in campagna e la casa in città. La sua predicazione fu una lucida scelta pastorale e la via più efficace per mantenere e rinsaldare il legame con il popolo».

Ratzingher cita – come fece tante volte Pellegrino – i «Sermoni» 17 e 18 dedicati a un tema di attualità strabiliante, «la ricchezza e la povertà nelle comunità cristiane»: «La città era percorsa da gravi tensioni e le ricchezze venivano accumulate e occultate». Nel «Sermone» 17 Massimo constata amaramente: «Uno non pensa al bisogno dell’altro. Molti cristiani non solo non distribuiscono le cose proprie, ma rapinano anche quelle degli altri. Non solo, raccogliendo i loro danari non li portano ai piedi degli apostoli, ma anche trascinano via dai piedi dei sacerdoti i loro fratelli che cercano aiuto. Nella nostra città ci sono molti ospiti o pellegrini. Fate ciò che avete promesso aderendo alla fede».

Il «Sermone» 18 stigmatizza «le forme ricorrenti di sciacallaggio sulle altrui disgrazie». Il vescovo apostrofa i fedeli: «Dimmi, cristiano: perché hai preso la preda abbandonata dai predoni? Perché hai introdotto nella tua casa un “guadagno” sbranato e contaminato? Forse tu dici di averlo comperato, e così pensi di evitare l’accusa di avarizia. Ma non è in questo modo che si può far corrispondere la compera alla vendita. È una buona cosa comprare, ma in tempo di pace ciò che si vende liberamente, non durante un saccheggio ciò che è stato rapinato. Agisce da cristiano e da cittadino chi compra per restituire».

Il vescovo – commenta Ratzinger – «predica una relazione profonda tra i doveri del cristiano e quelli del cittadino. Ai suoi occhi, vivere la vita cristiana significa anche assumere gli impegni civili». Nel «Sermone» 41 denuncia ogni cristiano «che, pur potendo vivere con il suo lavoro, cattura la preda altrui con il furore delle fiere, insidia il suo vicino, ogni giorno tenta di rosicchiare i confini altrui e di impadronirsi dei prodotti»: è come la volpe che sgozza le galline e il lupo che si avventa sui porci.

Benedetto confronta «il prudente atteggiamento di difesa di Ambrogio per giustificare la famosa iniziativa di riscattare i prigionieri di guerra mentre mutavano i rapporti tra il vescovo e le istituzioni cittadine» con la scelta di Massimo che «è sostenuto da una legislazione che sollecita i cristiani a redimere i prigionieri, nel crollo delle autorità dell’Impero romano, e si sentì autorizzato a esercitare un vero e proprio potere di controllo sulla città». Un potere sempre più ampio ed efficace, «fino a supplire la latitanza dei magistrati e delle istituzioni civili». Nel «Sermone» 26 «non solo si adopera per rinfocolare nei fedeli l’amore verso la patria cittadina, ma proclama anche il preciso dovere di far fronte agli oneri fiscali, per quanto gravosi e sgraditi possano apparire. Il tono e la sostanza dei “Sermoni” suppongono un’accresciuta consapevolezza della responsabilità politica del vescovo che è “la vedetta” collocata nella città».

Chi sono le vedette? Risponde il «Sermone» 92: sono «i beatissimi vescovi che, collocati su un’elevata rocca di sapienza per la difesa dei popoli, vedono da lontano i mali che sopraggiungono». E nel «Sermone» 89 illustra i compiti del vescovo «avvalendosi di un paragone singolare tra la funzione episcopale e quella delle api: come le api, i vescovi osservano la castità del corpo, porgono il cibo della vita celeste, usano il pungiglione della legge. Sono puri per santificare, dolci per ristorare, severi per punire».

In conclusione – dice il Papa – «l’analisi storica e letteraria dimostra una crescente consapevolezza della responsabilità politica dell’autorità ecclesiastica, in un contesto nel quale di fatto si sostituiva a quella civile. È la linea di sviluppo del ministero del vescovo nell’Italia nordoccidentale, a partire da Eusebio che, “come un monaco”, abitava Vercelli fino a Massimo di Torino posto “come sentinella” sulla rocca più alta della città».

Il Papa cita uno dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano, «la coerenza tra fede e comportamento, tra Vangelo e cultura». La «Gaudium et spes» esorta i cristiani a «compiere fedelmente i doveri terreni facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quella futura, pensano di poter trascurare i doveri terreni, e non riflettono che proprio la fede li obbliga a compierli, secondo la vocazione di ciascuno». Conclude: «Seguendo il magistero di Massimo e di molti altri Padri, facciamo nostro l’auspicio del Concilio»: i fedeli svolgano «tutte le attività terrene unificando gli sforzi umani, professionali, scientifici e tecnici in una sintesi vitale con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio e al bene dell’umanità».

Pier Giuseppe Accornero

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