Possiamo dirlo? Possiamo scriverlo che questo rito, obbligato, delle canzonette in tv ha un po’ stufato? Parliamo di Sanremo 2021, ovviamente, ed anche solo scrivendone qui, stiamo facendone pubblicità. Si dirà, le maestranze della musica che non lavorano sono ferme da tempo causa Covid. E trascurare poi l’audience televisiva, nei ricorrenti sgomenti suscitati dalle ondate del virus, potrebbe apparire inelegante.
Tutto bene, allora, lo svago televisivo è importante e, con Sanremo, la Rai mette in cascina il ‘fieno’ (denaro sonante della pubblicità) che quasi sistema il bilancio di un anno intero. Gioco delle parti televisive, dunque (non siamo nati ieri), rito della gara delle canzonette, non pomposamente Festival della canzone italiana. Quello, se c’è mai stato, è finito da un po’: il Festival è un puro format tv.
Questa lunga premessa è per dire della noia, in particolare di quest’anno che è arrivata dall’Ariston. Teatro forzatamente vuoto. Allora che si fa? Si affida la trasgressione ad Achille Lauro (e con nostro stupore, affiancato anche da Fiorello, di solito brillante e misuratissimo). Lauro, dunque – già visto l’anno scorso (dov’è allora questa novità?) – con i suoi quadri piumati, glittterati, cadenti, allusivi di temi quaresimali (proprio inopportuni).

Spontanea trasgressione? Di cosa, poi? È sembrata piuttosto una costruitissima elaborazione a tavolino di marchi pubblicitari. Allusione al glam rock di David Bowie, Brian Eno, degli altri di quell’epoca, della interpretazione italiana di Renato Zero? Ci è sembrato una pallida immagine.
Ma veniamo alla musica dei vincitori, i Maneskin, con la canzone «Zitti e buoni». Anche qui allusioni al glam di cui sopra e un brano, più che ‘naturale’, che appare studiatissimo. Schitarrate grunge-hard, il frontman Damiano che gorgoglia cavernosamente i suoi testi sexy e dannati. È da quando si sono rivelati nella finale 2017 di «X-Factor» che sembrano essersi cristallizzati su questo stile. Sono ancora giovani, cambieranno?
E ancora, per fare buon peso, il tema neanche tanto sotterraneo del gender fluid (soprattutto con i Maneskin e con Lauro): in prima serata su Rai1, squadernato senza pudore. Trasgressione? Ma di cosa? Leggerezze imperdonabili, giustamente rilevate dal vescovo di Sanremo, dall’associazione degli esorcisti (perché purtroppo gli elementi finiti in questa girandola perversa sono molti).
E la musica, che fine fa in tutto ciò? Sta ai margini, galleggia. La sempre straordinaria, professionale e cangiante orchestra dell’Ariston. E qualche brano seriamente leggero, leggermente serio e sincero come Gaudiano, vincitore delle nuove proposte con «Polvere da sparo», o la composta. dignitosa costruzione melodica del brano di Francesca Michielin e Fedez («Chiamami per nome») o Ermal Meta («Un milione di cose da dirti»).
Canzonette, serie. Questo dovrebbero essere. Popolari, sanamente. Nate da una cultura e da una conoscenza diffusa. Segno di una comunità colta, attrezzata anche in questo a cogliere il bello. Nella musica, nell’arte. Non servono azioni pour épater le bourgeois, lo spazio di un attimo. Serve curiosità inestinguibile, lungo studio e sincera applicazione. E forse anche un Festival di canzoni perderà certa gravità inutile di quest’anno. Perché non siano, queste, le parole illuse di un ormai (anziano) baby boomerrockettaro.