Santa Sede e Cina hanno prorogato per altri due anni l’accordo provvisorio per la nomina dei vescovi e la Santa Sede «ritenendo che l’avvio dell’applicazione dell’accordo – di fondamentale valore ecclesiale e pastorale – è stato positivo, grazie alla buona comunicazione e collaborazione, è intenzionata a proseguire il dialogo aperto e costruttivo per favorire la vita della Chiesa e il bene del popolo cinese».
Il 22 ottobre 2020 l’accordo è stato prolungato «ad experimentum». I contenuti erano e restano segreti. Il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin spera «che funzioni ancora meglio rispetto a quello che è stato fatto finora e che si possano nominare i vescovi in tutte le diocesi vacanti. Poi ci sono anche tanti altri problemi che l’accordo non si proponeva di risolvere». E il ristabilimento delle relazioni diplomatiche? Per il momento non se ne parla: «Siamo concentrati sulla Chiesa. L’accordo non ha risolto tutti i problemi e le difficoltà che speriamo con il dialogo di affrontare, ma riguarda il punto specifico della nomina dei vescovi. L’obiettivo è l’unità della Chiesa. Adesso i vescovi non sono più illegittimi e tutti sono in comunione con il Papa. Questo è un passo avanti notevole».
Mike Pompeo, segretario di Stato americano, tenta in tutti i modi di dissuadere la Santa Sede dal rinnovo. Ci prova anche il 1° ottobre incontrando Parolin e l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, «ministro degli Esteri» vaticano. Un incontro «in un clima di rispetto, disteso e cordiale», ma non c’è niente da fare. Spiega Parolin: «Cerchiamo tutti la libertà religiosa e una vita normale per la Chiesa. La difesa e la promozione della libertà religiosa e la pace nel mondo sono lo scopo principale della diplomazia pontificia». La Santa Sede è ben consapevole che la libertà religiosa è sconosciuta in Cina come nei regimi comunisti, totalitari e islamici integristi: dalla Cina al Pakistan, dalla Corea del Nord all’Arabia Saudita, dall’Afghanistan al Vietnam. Parolin suggerisce di «sfruttare tutte le possibilità di apertura di un grande Paese come la Cina. L’accordo è “pastorale” e non “politico” o “diplomatico” ed è stato siglato nella consapevolezza che ci sono molti altri problemi ma che non è possibile affrontarli tutti insieme».
Nel Sette-Ottocento il colonialismo europeo sostiene l’attività missionaria, non perché gli interessi la diffusione del Vangelo, ma perché è affamato di nuove terre da depredare: le potenze coloniali favoriscono i missionari in quanto sostenitori dei singoli Paesi. Per i medesimi motivi la laicissima Francia non persegue oltremare la politica anticlericale che furoreggia nella madrepatria e frappone tanti ostacoli alle relazioni diplomatiche tra Cina e Santa Sede perché teme che il Vaticano riduca l’influenza di Parigi che ha il «protettorato» sulle missioni.
Il dialogo ha radici antiche. Matteo Ricci (1552-1610), gesuita marchigiano di Macerata, missionario in Cina con il gesuita Michele Ruggeri dal 1582, prima entra nella cultura, nella lingua, negli usi e costumi dei cinesi e poi evangelizza, come fa in India il gesuita Roberto De Nobili (1577-1656). I primi padri del Pontificio Istituto Missioni estere (Pime), in Cina dal 1870, notano l’ostilità delle classi sociali, che vedono il loro lavoro come imposizione delle potenze europee, tentano di cacciare i missionari e di impedire le conversioni per motivi non religiosi ma di avversità verso lo straniero. Segnalano la necessità di fare un Sinodo della Chiesa cinese e suggeriscono di mandare un legato pontificio per stabilire rapporti con Pechino.
Benedetto XV scrive la lettera apostolica «Maximum Illud» (30 novembre 1919) pensando alla situazione cinese. Pio XI nomina mons. Celso Costantini delegato apostolico in Cina: promuove un Cattolicesimo dal volto cinese che conduce alla nomina dei primi vescovi e nel 1924 al primo Sinodo cinese. Padre Paolo Manna – superiore generale del Pime, oggi beato – compie un lungo viaggio nelle missioni orientali (1927-29) e nelle «Osservazioni sul metodo moderno di evangelizzazione» chiede «un rinnovamento rivoluzionario» delle missioni su quattro problemi: occidentalismo dei missionari; azione di denazionalizzare dei cattolici; formazione del clero locale; penetrazione nella società e nella cultura: «Le missioni sono organismi esteri, finanziati da denaro estero, appoggiati da governi esteri. Si deve fondare una Chiesa locale».
L’internunzio Antonio Riberi giunge in Cina nel 1946, quando Pio XII nomina cardinale l’arcivescovo di Pechino Thomas Tein Ken-sin. Pacelli punta a un accordo, dopo che il comunista Mao-tse-tung prende il potere, e chiede ai missionari «di rimanere al loro posto anche a prezzo di grandi sacrifici». Ma sbaglia la mossa quando il 1° luglio 1949 scomunica i comunisti, decisione che scatena nuove persecuzioni in Urss, Europa orientale e Cina con l’accusa di fare «una crociata anticomunista». Nel 1951 i missionari stranieri sono espulsi e i cattolici sono pressati ad accettare il «principio delle tre autonomie: autogoverno, autofinanziamento e autopropaganda» ma la maggioranza rifiuta. Nella lettera ai cattolici cinesi «Cupimus imprimis» (18 gennaio1952) Pio XII assicura che la fede cattolica «non si oppone alla naturale indole di ogni popolo, ma benevolmente li accoglie». Nell’enciclica «Ad apostolorum principis» (29 giugno 1958) condanna le ordinazioni illegittime dei vescovi. Benedetto XVI nella «Lettera ai cattolici cinesi» (27 maggio 2007) auspica l’apertura di uno «spazio di dialogo» con la Cina e approva il progetto di accordo, poi firmato il 22 ottobre 2018 e rinnovato il 22 ottobre 2020 con Francesco.