Scandalo Facebook: i social ci spiano, ma siamo d’accordo

Privacy – Le inchieste del “Guardian” e del “New York Times” svelano che milioni di americani sino stati spiati on line per influenzare le presidenziali del 2016. Zuzkerberg si scusa, ma il titolo crolla in borsa. La vera partita è sulla gestione dei nostri dati

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Quando si installa una qualsiasi app sul computer o smartphone compare quasi subito una videata che chiede: «Accetti le condizioni d’uso?». Accanto, in una finestrella, appaiono una manciata di righe, l’inizio di un testo che nessuno legge mai (in certi casi ci vorrebbero parecchie ore). La frenesia di avviare quella app è tanta: clicchiamo subito «Ok» e ci buttiamo a capofitto nel nuovo giochino, come bimbi a Natale.

In quelle righe ci sono le condizioni che noi dichiariamo di accettare e che di fatto consentono esattamente quello che è capitato nella vicenda Facebook-Cambridge Analytica: la proprietà di quel social network ha il diritto di raccogliere i nostri dati e di cederli (in parte) a terzi. Lo dice il contratto che abbiamo accettato (firmato) senza leggerlo.

Affermare che «Facebook ci spia» è una sciocchezza: siamo noi che autorizziamo Facebook (come qualsiasi altro social network beninteso!) a raccogliere e catalogare le informazioni che noi stessi diamo di noi: dati anagrafici, gusti nel cibo, preferenze negli acquisti on line (ma anche nei negozi tradizionali), acciacchi e malattie…

Fate un test: aprite un motore di ricerca qualsiasi e scrivete la cosa più lontana da voi. Per esempio: amo per la pesca al merluzzo alle Lofoten. Consultate un paio di risultati; chiudete tutto e aprite la pagina di un vostro social network. In un attimo negli spazi destinati alle inserzioni pubblicitarie, compaiono alcune réclame sui voli aerei per le Lofoten, sull’abbigliamento più adatto per la pesca al merluzzo e così via.

Il nostro computer e il nostro account sono registrati e lasciano una traccia ovunque ci si muova in rete. Queste tracce (cookies, ma non solo) vengono raccolte dagli algoritmi che le associano al nostro profilo, creando quindi gruppi di profili simili, accostandoci a persone che hanno mostrato interessi simili a noi. Il tutto viene venduto a chi vede in noi un possibile acquirente di beni e servizi. Chi noleggia attrezzature da pesca alle Lofoten si iscrive a questo servizio, paga i contatti ‘a peso’ e la sua pubblicità arriva direttamente sui profili social di quelle persone che hanno mostrato interesse.

Si chiama «profilazione» ed è il lato oscuro (ma mica poi tanto… è tutto scritto sul contratto) dei social network. Se apprezziamo che i vari Facebook siano gratis, da qualche parte questo servizio bisogna pur pagarlo, no? Ovviamente sul contratto c’è scritto che noi accettiamo che le nostre informazioni siano usate a fini di profilazione e a uso del social media marketing o di microtargeting, non che siano venduti a società che si occupano di analisi politiche.

Ma c’è da scommettere che qualche brigata di avvocati sappia già come fronteggiare una class action equiparando la Cambridge Analytica a una qualsiasi società di ricerche di mercato, dunque piuttosto in linea con quanto prevede il contratto.

La profilazione non è una novità. Anche la tessera a punti del supermercato è una cessione spontanea e autorizzata di informazioni sensibili e personali: la tessera fedeltà riporta i miei dati (età, indirizzo, e-mail, numero di telefono…) e li associa allo scontrino del centro commerciale: si conosce alla virgola che cosa ho acquistato.

In ambito social network la profilazione è una «qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica» (articolo 4 del General Data Protection Regulation, Gdpr, il Regolamento europeo 679, varato nel 2016 che il prossimo 24 maggio entra in vigore come legge italiana, soppiantando di fatto una serie di norme ormai obsolete).

Se l’inventore di un’app ci chiede, in cambio della gratuità del servizio previsto dalla App, di raccogliere i nostri dati e di sapere la nostra posizione, tramite il geolocalizzatore inserito in ciascun telefono, e di accedere alla nostra rubrica telefonica (come pretende WhatsApp, per esempio) e noi si acconsente, di fatto è stato firmato un contratto. Se non ci garba abbiamo solo da non accedere al servizio. Quello che va perfezionato è una miglior regolamentazione sull’utilizzo che si può fare di queste informazioni… ed è proprio quello che il nuovo Regolamento sulla privacy europeo sta introducendo, istituendo, tra l’altro il «diritto all’oblio»: se voglio esser cancellato da un social questo mio desiderio deve esser rispettato all’istante. Oggi chi cerca di cancellare un profilo in realtà lo ‘mette in letargo’.

Se i regolamenti e la chiarezza sono importanti, assai più importante è la consapevolezza. Noi adulti quanto ne sappiamo di come funziona un social network? Noi siamo ‘immigrati digitali’ ovvero persone nate e cresciute senza la Rete che a un certo punto entrano, da adulti, in un mondo che prima non esisteva. C’è chi rifiuta, c’è chi assaggia piano piano e cerca di non fare passi falsi e c’è chi si inebria e regredisce (quanto sono infantili le chat dei gruppi WhatsApp dei genitori di una classe?).

Chiunque oggi si occupa di minori non può non avere una buona dimestichezza del funzionamento dei social network. Lo ribadisce anche la legge sul cyberbullismo (n° 71/29 maggio 2017) che è tutta votata alla prevenzione, che ha istituito un tavolo operativo per creare tutte le occasioni possibili per istruire i bambini e gli adolescenti all’uso consapevole del Web.

A scuola in primis; ma non serve l’attività in classe se poi sono impreparati docenti e genitori. E serve altrettanta formazione in oratorio, nelle società sportive, nei gruppi scout… L’educatore più efficace è colui che parla poco e lavora sul buon esempio: ma se il genitore o l’insegnante, il parroco o la catechista, l’allenatore o il responsabile del camp estivo sono i primi a usare maldestramente i social, come la mettiamo?

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