Le forche caudine per l’anno scolastico che verrà sono dietro l’angolo. Metafora non gratuita, perché le probabilità che il 1° settembre tutti gli insegnanti siano in cattedra sono davvero remote. Almeno, a dar credito ai numeri. Il 24 giugno, San Giovanni, patrono di Torino, con la città un po’ distratta dai droni notturni, infatti, è stata resa nota la comunicazione che da sempre mette in fibrillazione la scuola italiana: i trasferimenti del personale docente. Comunicazione ricca di conferme, se per tali intendiamo la cronica mancanza di insegnanti nelle regioni e province del Nord: oltre seimila di ogni ordine e grado soltanto in Piemonte, di cui quasi la metà nella Città metropolitana. Carenze destinate ad allargarsi, ragionevolmente, per effetto delle richieste di part-time, di aspettative a vario titolo o per sdoppiamento delle classi, da colmare con le supplenze. La soluzione dell’annoso problema passa dalla pubblicazione delle graduatorie a esaurimento (appena aggiornate) che unite a quelle del concorso del 2016 comunque non disporranno di un numero sufficiente di aspiranti insegnanti da immettere in ruolo. Una prospettiva dunque incompatibile con il concetto di scuola pubblica, da cui non sono escluse le scuole paritarie cattoliche e non, uno dei pilastri etici e morali (almeno in teoria) su cui si dovrebbe fondare lo Stato. Situazione fotocopia a quella denunciata (profeticamente) il 16 giugno scorso da queste stesse colonne sui vuoti d’organico esistenti tra i presidi e i dirigenti scolastici. Una preoccupazione che ha trovato conferma piena con la sentenza del Tar Lazio, che martedì scorso ha annullato il concorso nazionale 2018-19 per quei ruoli. Il Ministero ha annunciato che ne chiederà la sospensiva con appello al Consiglio di Stato.

Episodi a ripetizione che proiettano nel Paese l’idea di una precarietà (imbarazzante) diventata norma nella scuola pubblica. E lo è da almeno due decenni, con riflessi gravi sulla professionalità del corpo docente e sulla preparazione degli allievi. Perché la precarietà o l’incertezza, come ha dimostrato uno studio recente della Fondazione Agnelli, non è a costo zero. Anzi. Gli studenti italiani si ritrovano al 21° posto nella capacità di lettura a 15 anni fra i paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Dietro di noi, soltanto, Grecia, Romania e Turchia, in ordine. Davanti, il resto del mondo che conta. Lo stesso studio mostra, infatti, che il numero dei precari è diventato elevatissimo, nonostante la Buona scuola perseguita dal governo Renzi, e l’offerta per disciplina dei docenti è distonica rispetto ai reali bisogni della scuola.
Dispersione scolastica e senso di abbandono – Se il focus si sposta sul piano locale, si scopre che in Piemonte l’abbandono scolastico (o dispersione, secondo le indagini sociologiche) tende a risalire, soprattutto tra le femmine. Segnali che danno voce ad un disagio comune, collettivo, in cui l’abbandono degli uni (gli studenti e le loro famiglie), corrisponde al senso di abbandono che provano insegnanti e dirigenti scolastici. Tout se tient: la scuola dell’Autonomia, quella ideata nel 1999 dall’allora ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer, che aveva il suo architrave negli investimenti e nell’innovazione, nella sperimentazione, nella riduzione del numero di allievi delle classi, penalizzata da continui tagli ai bilanci è diventata una sorta di marchio, cui non corrispondono però i contenuti, né risorse, né per capitale umano. «È scuola mortificata, pallida erede di quell’esplosione d’iniziative e spinte alla trasformazione che l’avevano resa, tra gli anni Sessanta e Ottanta, una scuola autenticamente per tutti», secondo Teresa Olivieri, segretaria provinciale della Cisl scuola. Un’osservazione che si sposa alla critica per la nuova emergenza (prevedibile) che investe l’intero sistema scolastico. «L’errore più marchiano», aggiunge la dirigente sindacale, «sarebbe quello di ignorare le implicazioni suggerite dai numeri. Un esempio: il rapporto con l’Università per la formazione degli insegnanti di sostegno. Ne mancano 2.349 in Piemonte, 1.010 in provincia di Torino. Un problema grave. Non si tratta di insegnanti sui generis, da sostituire con supplenti, con gli ultimi arrivati: appartengono alla categoria Bes (Bisogni educativi speciali) e per i bambini con disabilità sono il di più, non il meno…».

Università e abilitazioni – In una regione la cui Università ne abilita poco più di duecento all’anno, gli insegnanti di sostegno che mancano all’appello sono più di un terzo del vuoto d’organico. Un problema nel problema per il Piemonte, ripetutamente denunciate dai sindacati all’Ateneo subalpino responsabile della formazione «Pass» (percorso abilitante speciale sul sostegno). Un problema che si trasforma in aperta contraddizione quando ci si confronta sul piano nazionale con altre regioni. Il Molise, regione a statuto speciale, con poco più di 300 mila abitanti, ne sforna 280 all’anno, la Sicilia 2.500. L’assenza di una politica di coordinamento nazionale, pur nel rispetto dell’autonomia, diventa così il preludio ad una cascata di disfunzioni che frena ulteriormente il passo della scuola, già caratterizzato da una pervasiva burocrazia. Per Teresa Olivieri, l’Università deve cambiare rotta e politica per sanare il deficit di personale. «I corsi di formazione per poco più di duecento allievi, che costano 3mila euro, sono però appannaggio esclusivo dell’Ateneo di Torino, poiché l’Università del Piemonte orientale non ha la Facoltà di Scienze della formazione primaria. Ne consegue che, con i test preselettivi o a Torino o a Savigliano, lo squilibrio territoriale ricade interamente sul cosiddetto Piemonte 2, i cui aspiranti insegnanti di sostegno sono costretti o a emigrare o comunque a gravitare su Milano. E l’effetto non è di quelli auspicabili: all’esaurimento delle graduatorie di insegnanti di sostegno, si attinge dalle graduatorie comuni, cioè gli ultimi sono costretti ad accettare posti riservati a specializzati».
In un recente incontro con il nuovo rettore dell’Università di Torino Stefano Geuna, i sindacati sono stati rassicurati sull’apertura a numeri più sensibili alle necessità. Del resto, sarebbe una contraddizione rinunciare a un mercato che offre larghezza di posti, soltanto per la mancanza di candidati con il titolo giusto. Da qui il dovere dello Stato di garantire la possibilità di abilitazione a insegnanti che in qualche caso, come sottolinea Teresa Olivieri, «da oltre 15 anni fa lo stesso lavoro di quelli di ruolo, con meno tutele e meno diritti. Se l’insegnante è un nomade come potrà essere parte di quella comunità educante necessaria per la qualità del sistema scolastico? E’ necessario stabilizzare chi possiede il titolo e consentire a chi non lo possiede di formarsi adeguatamente e urgentemente».
Formazione e reclutamento – Viste nel loro insieme le carenze scolastiche si traducono in un problema sociale, da cui emerge l’assenza di una strategia d’investimento sulla formazione iniziale e sul reclutamento. Binari che dovrebbero viaggiare in parallelo: il titolo di studio è la condizione per seguire corsi di formazione e successivamente essere assunto attraverso concorso. Ma la selezione langue. L’ultimo concorso bandito ha riguardato la scuola dell’infanzia e primaria. Medie e superiori sono ancora in attesa.
Via dalle classi «pollaio» – Se i vuoti nell’organico lo testimoniano, il numero di precari ne è una conferma. La Fondazione Agnelli stima il precariato scolastico in 160 mila unità nel Paese. Un dato non disaggregabile su scala regionale o provinciale, perché alle graduatorie di istituto si iscrivono da tutta Italia. A ciò si deve aggiungere chi presenta direttamente alla scuola la Mad, acronimo di Messa a Disposizione. Guardata in retrospettiva e da più angoli di osservazione, per Teresa Olivieri la cifra rivela anche il parziale fallimento della «Buona scuola» di memoria renziana.
All’esecutivo renziano si rimprovera anche di aver trascurato la scuola dell’infanzia (fiore all’occhiello della tradizione italiana), insieme all’incapacità di spezzare, con una nuova redistribuzione delle cattedre, l’inveterata tendenza a formare le cosiddette classi «pollaio».
In proposito, lo sguardo al passato non è accademia verbale con un futuro che indica con il calo demografico la riduzione di scolari. La vera sfida, infatti, per restituire qualità alla scuola pubblica e paritaria (per la parte dei contributi economici) è quella di ridurre il numero di allievi nelle classi, non di ridurre le classi (e dunque gli insegnanti) con accorpamenti tranchant che si rivelano controproducenti sul piano pedagogico. In caso contrario, il rischio sarà quello di farsi trascinare a rimorchio dagli eventi (previsti) e di vivere come ineluttabile (sostenuti dall’ingordigia di tagli al sociale) la riduzione delle cattedre. E in Piemonte, secondo una ricerca dell’Ires, si conteranno circa 3.300 posti di lavoro in meno nei prossimi dieci anni.
Quest’anno a livello provinciale torinese si registrerà la diminuzione di 2.200 bimbi nella scuola primaria, con una crescita di 600 unità in quella superiore, mentre permane stabile la scuola media. Uno scenario che potrebbe diventare paradossalmente una risorsa-incentivo a facilitare le prime sperimentazioni per invertire la tendenza verso classi meno numerose, col ripristino del tempo pieno e di nuovi insegnamenti di laboratorio, interventi a favore dell’edilizia scolastica, sulla formazione e sulla motivazione degli insegnanti, del personale amministrativo-tecnico (Ata) e dei dirigenti scolastici e l’adeguamento, ultimo ma non meno importante, di salari adeguati agli standard europei.