«Si può e si deve respingere la tentazione, indotta anche da mutamenti legislativi, di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia». I vescovi italiani, unanimi e concordi, rilanciano le parole di Papa Francesco ed esprimono «sconcerto e distanza» alla sentenza della Corte costituzionale che il 25 settembre 2019 ha dato via libera al suicidio assistito «a determinate condizioni».
La Consulta dopo una camera di consiglio di una trentina di ore – segno di forti contrasti – «ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del Codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». In attesa di un «indispensabile intervento del legislatore» – ma i partiti sono divisissimi – «l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso verso persone vulnerabili».
In una nota della presidenza la Cei afferma: «La preoccupazione maggiore è sulla spinta culturale implicita che può derivare per soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità. I vescovi confermano l’impegno di prossimità e accompagnamento verso tutti i malati e si attendono che il passaggio parlamentare riconosca nel massimo grado tali valori, anche tutelando gli operatori sanitari con la libertà di scelta». Per Domenico Pompili, vescovo di Rieti e già sottosegretario e portavoce Cei, «il dolore si contrasta con scienza e medicina, non causando la morte». Per il teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, «siamo di fronte a una questione drammatica che riguarda la vita e la morte. Su questa materia nessuno deve cantare vittoria», come ha fatto il radicale Marco Cappato.
Alberto Gambino, presidente di Scienza & Vita: «La Corte cede a una visione utilitaristica della vita ribaltando l’articolo della Carta che mette al centro la persona. Da oggi non sarà più un dovere sociale impedire l’uccisione di un essere umano. Partendo da un caso di grave disabilità e non da una situazione di malattia terminale, la Corte cede alla lettura ideologica dei radicali che hanno dato origine al caso, sradicando la solidarietà che mira a impedire gesti estremi a chi versa in situazioni di fragilità, per aprire a ipotesi di uccisione. Dispiace che la riconosciuta saggezza della Corte non abbia colto l’impatto culturale che l’apertura al suicidio assistito potrà comportare sulle prassi sanitario-assistenziali anche per motivi di costi e spesa. Compito di quanti hanno a cuore la cura delle persone che versano in condizioni vulnerabili è la riduzione al massimo dell’impatto sociale della sentenza. La Corte lascia aperto uno spiraglio che permette al Parlamento di intervenire. È un invito forte alla politica a riportare in aula la discussione di un tema importante e delicato e a valutare bene la situazione e le ricadute della legge».
Il Movimento per la vita condivide «lo sdegno e l’amarezza per questa grave sconfitta civile. La Corte ha calpestato le regole della democrazia arrogandosi un potere che non le compete. Gravissimo che non siano stati ascoltati i forti inviti e i richiami a portare il dibattito in seno alle istituzioni che rappresentano i cittadini. Una prepotenza che avrà effetti nefasti sulla solidarietà. Verranno meno le ragioni profonde della prossimità e dell’assistenza con tutte le drammatiche conseguenze sul Servizio sanitario nazionale. La sofferenza non si combatte con il farmaco letale ma con la terapia del dolore e le cure palliative. Dietro il suicidio assistito e l’eutanasia c’è una cultura che non sa riconoscere la dignità umana di malati e disabili, e che strumentalizza la libertà. Il Parlamento intervenga per evitare peggiori derive. I medici si rifiutino di collaborare ad atti che cagionano la morte. La medicina palliativa e la terapia del dolore sia diffusa su tutto il territorio nazionale».
Per il Centro studi Livatino la decisione «demanda al singolo giudice stabilire se sussistono le condizioni per la non punibilità, cioè investe il giudice del potere di stabilire quando togliere la vita a una persona sia sanzionato oppure no, e fa crescere confusione e arbitrio, ricordando che deve essere rispettata la normativa su consenso informato e cure palliative: ma come, se la legge sulle cure palliative non è mai stata finanziata e non esistono reparti attrezzati? La decisione medicalizza il suicidio assistito scaricando una decisione così impegnativa sul Servizio sanitario, senza menzionare l’obiezione di coscienza».
Roberto Colombo, docente di Medicina all’Università Cattolica, esprime «forte dissenso per una sentenza scivolosa che amareggia coloro che stanno accanto ai malati gravi e inguaribili ma non incurabili. La sentenza umilia la passione, l’impegno e la generosità che medici, infermieri, parenti, amici e volontari dedicano ai disabili più grav. La Corte attenta alle radici delle ragioni profonde della prossimità familiare e dell’assistenza medico-infermieristica ai malati in condizioni croniche, equiparando l’assistenza medica di un suicidio a una prestazione sanitaria. Si avvera quanto paventato dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente Cei: l’approvazione del suicidio assistito apre una voragine legislativa, ponendosi in contrasto con la Costituzione che all’articolo 2 asserisce: “La Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo”, il primo è alla vita. Un abisso che difficilmente il Parlamento potrà colmare, considerati i “paletti”. Non siamo più liberi di vivere, ma siamo più prigionieri della cultura della morte e dello scarto. Alla fatica dell’accoglienza e della cura si è sostituita la scorciatoia di togliere la vita per togliere la fatica del vivere accanto a chi soffre. Occorre ricostruire la civiltà della vita, dell’accoglienza, della cura e della speranza».