La carità come profezia, l’impegno generoso per chi fatica come segno vitale da contrapporre a una società in cui nichilismo e individualismo dilagante generano sofferenza, solitudine e aggrava le condizioni di fragilità di uomini e donne in cui il disagio economico è spesso solo uno degli aspetti problematici. Questo il messaggio che l’Arcivescovo ha lanciato nel suo intervento alla Giornata Caritas. Un incoraggiamento agli oltre mille volontari impegnati nei servizi caritativi ma soprattutto un appello ad ogni persona a mettersi in gioco per contrastare quel modello individualista e quelle logiche economicistiche che non consentono di vedere volti e storie, di instaurare rapporti di fraternità.
«Mi veniva da pensare», ha sottolineato l’Arcivescovo, «leggendo questi semplici dati, che cosa sarebbe la nostra città di Torino e tutto il territorio della nostra diocesi di Torino se non ci fosse l’impegno gratuito di tantissime persone come voi. Potremmo dire che la nostra società sarebbe ancora più deteriorata di quello che già è. E credo che questo dobbiamo dirlo; dobbiamo dirlo non per crogiolarci in noi stessi ma per vedere quanto – al fine che esista una società compatta, dove le diversità sono appunto non una minaccia ma addirittura una ricchezza – c’è bisogno della generosità gratuita di molte persone».
«E credo», ha proseguito, «che oggi dobbiamo vedere questo anche con uno spirito profetico rispetto alla nostra società, anche rispetto alla politica, perché da una parte viviamo in un tempo e in un mondo in cui si fa conto – potremmo dire – della generosità di tanti, senza la quale la società non sta in piedi, ma nello stesso tempo rischiamo di coltivare una cultura individualistica e funzionalistica, per la quale non c’è più neanche il tempo della generosità».
Ma come alimentare e promuovere uno stile generoso e fraterno? Due le tentazioni che l’Arcivescovo ha richiamato: il neopelagianesimo e la modernizzazione, rispettivamente il rischio di scollegare l’opera caritativa dall’intervento di Dio quasi a sostituirsi ad esso e quella di una funzionalità che va a scapito delle relazioni, che diventa iperspecializzazione a compartimenti stagni.
«Il pelagianesimo», ha proseguito, «era quella stortura del Cristianesimo in cui si pensava che ciò che conta fondamentalmente è quello che facciamo noi e che, se questo non funziona, allora Dio in qualche modo viene bloccato. Credo che questa sia una tentazione che possiamo vivere nel nostro mondo “caritativo”, quando pensiamo che la Caritas abbia origine da noi. Se la Caritas ha origine da noi, noi siamo il termine ultimo di tutto. Ma c’è da chiedersi se una Chiesa in cui la Caritas ha origine da noi, abbia bisogno della Caritas. E c’è un secondo pericolo che possiamo correre, che è quello di una iper modernizzazione delle nostre strutture e delle nostre attività caritative. Che cosa intendo? Intendo il fatto che sappiamo molto bene che anche per offrire la carità, anche per offrire un aiuto a chi è nel bisogno, abbiamo bisogno di strutturarci e abbiamo bisogno anche di specializzarci, ma c’è il pericolo che così facendo – se non vigiliamo – la Caritas diventi, potremmo dire, un compartimento stagno della vita della Chiesa, al punto di perdere il riferimento con altre dimensioni della vita della Chiesa e al punto di non sapere più alla fine perché si tratterebbe di esprimerci nella generosità gratuita e chinarci sui bisogni delle persone che incontriamo».
Rischi che si affrontano restando radicati nella prospettiva di Dio che va oltre i bisogni materiali: «Abbiamo bisogno di ricollocare la carità», ha concluso, «nell’orizzonte dell’annuncio della Parola di quel Signore che è il fondamento di tutto e nell’orizzonte della liturgia che è quel momento in cui riceviamo Cristo vivente in mezzo a noi» .