Sono bastati settant’anni per passare «dall’incubo ad una realtà da incubo». Linguaggio, vita, percezioni. Tutto è cambiato da quando nel 1948 George Orwell scrisse «1984». La cronaca, allora, correva sui telefoni dei posti pubblici, ai giornali veniva trasformata in sette copie con la carta carbone, poi via al direttore, il capo, il correttore di bozze, il responsabile. Le telecamere erano enormi, pesanti, invasive, difficili da spostare. I sistemi di scrittura erano quasi sempre le Olivetti 22 o 32. Se il foglio si strappava, si riscriveva tutto. Le fotografie s’andavano a cercare, con pazienza. Ora sono su facebook, sui manifesti, sugli altri social.

Sì, allora non ci credette quasi nessuno. «Il Grande fratello. E che cos’è?». Si filmava con le cineprese 8 e super 8. I ‘pezzi’ si scrivevano spesso a mano, seduti sui marciapiedi e le panchine, ora anche, ma sul tablet o lo smartphone. Si deve rispettare non il numero di righe, come una volta, ma le ‘linee’, quelle tipografiche che dovranno cadere perfette nella pagina. Più libertà o maggior lacci.
Quante centinaia di righe di piombo sono state tagliate. Giovanni Arpino mi disse che a tagliarli gli articoli quasi sempre migliorano. Forse è così. Ma ora è impossibile. Tutto deve combaciare come i secondi di una diretta tv. Le prime storie in televisione duravano molto. Ricordate i collegamenti via cavo, il telegiornale unico, le rassegne? Poi, progressivamente ci siamo cambiati la vita (miglioramento o passo indietro? Tutti e due): il taccuino non c’era più, ma improbabili miniregistratori (che fine hanno fatto i dimafonisti, cioè quelli che registravano i pezzi e trasformavano il parlato in scritto?), l’informazione ha cominciato a rendersi sempre più breve, per essere incisiva. Nei tg regionali nati nel 1979 c’erano grandi e lunghe storie, poi via via si sono ridotte. Mai oltre i 2 minuti. Per non parlare dei tg nazionali. Paolo Frajese conduttore, mi mandarono a fare un’inchiesta su «vivere con un milione al mese a Mirafiori», raccolsi, voci, interviste, vicende. Confezionai 1 minuto e 22 secondi. Da Roma mi dissero «taglia, troppo lungo». Divenne 1 minuto e 15 secondi.
Velocità. Velocità, velocità. Ma il giornalista era comunque, ancora e sempre, un testimone che raccontava ciò che aveva visto. Poi, lentamente sono comparse le prime telecamere. Lui, Orwell, l’aveva capito. Come? Non si sa. Certo aveva lavorato alla Bbc, aveva contatti con circoli politici, frequentava l’élite dell’epoca nell’esclusivo college Eton. Ma da lì a prevedere il futuro… E così descrisse una società globale di totale controllo. Nel suo mondo nessuno poteva avere una vita propria e tutto ciò che facevano era controllato. Roba da ridere, si disse. Roba da piangere, si direbbe ora.
Poi nella ricostruzione dei grandi e piccoli fatti di cronaca le «riprese», le «immagini» sono diventate essenziali, ovviamente a scapito del linguaggio. Da Roma la domanda ricorrente era: «Che c’avete ‘e imaggini?». S’andava sui tg generalisti, il tg1 delle 20 o il tg5, solo se c’erano le riprese delle telecamere. Certo, è scattato tutto per l’imperativo della maggiore sicurezza. E allora ci siamo riempiti di ‘occhi elettronici’ nelle strade, davanti ai negozi, nei circoli, negli androni dei palazzi, nei giardini di casa. Certo, siamo più sicuri, ma anche più spiati a casa, al bar, al supermercato, o quando facciamo una passeggiata. Poi s’è aggiunto il web. Le webcam sono servite e servono a collegamenti reali con città distanti migliaia di chilometri. E sempre di più fare cronaca ha voluto dire fare un riassunto, più o meno gradevole, più o meno brillante delle immagini.
Addio così ai grandi «principi della cronaca», della giudiziaria, agli inviati di guerra che raccoglievano informazioni, verificavano e poi costruivano, con qualche spruzzata romanzesca magari, pagine memorabili che ora fanno parte della storia, come l’immagine di Humphrey Bogart nell’impeccabile impermeabile che esclama «È la stampa, bellezza». Tutto finito. E così i giornali hanno mandato in soffitta i vecchi telai che chiudevano le pagine in piombo, i primi sistemi editoriali su computer con lettere verdi, e via di corsa. Grandi occhi e grandi orecchi: nessuno infatti dimentica le grandi operazioni di spionaggio, la localizzazione di una persona con il semplice cellulare spento, magari, ma con batteria innescata.
Quando nel corso delle difficili indagini per l’uccisione nel 1997 di Letizia Berdini con un sasso lanciato sull’auto sotto il cavalcavia della Cavallosa a Tortona, sulla Torino Piacenza, cavalcavia numero 68, il pubblico ministero chiese aiuto ai satelliti per cercare di capire che cosa fosse successo, scoprimmo che gli occhi stavano anche in cielo e da allora nei servizi televisivi sono comparsele mappe di Google. E al racconto, alle immagini, si aggiunse il luogo e cominciò una sorta di crescendo di voci. Non più e non solo i cronisti a parlare, ma le parole degli amici delle vittime o addirittura dei protagonisti, la famosa «televisione del dolore». Interviste molto spesso quasi strappate, certamente forzate che hanno modificato un’altra volta il linguaggio.
Tutti perplessi quando comparvero i primi cellulari, grossi, pesanti, poco funzionali. Ma poi com’è che in pochi anni ci hanno cambiato le giornate, lo stile, anche i pensieri? Insieme ai social network, strumenti della più avanzata tecnologia ci hanno modificato i costumi, le parole e influenzato i gesti. Oggi diciamo tutti che non possiamo più farne a meno. Non sarà così, ma intanto ci danno alle nostre giornate i loro colori, non i nostri.
Grande Orwell, profetico. Nello stato del «Grande fratello», in Gran Bretagna, scoppia la guerra civile (oggi non sta uscendo dall’Europa?), l’Unione Sovietica la invade (qualcosa in Crimea, Ucraina, Paesi dell’Est è stato tentato), scoppia una Terza guerra mondiale (non la stiamo vivendo a pezzetti, come dice Papa Francesco?) e si intensificano le difficoltà con la Cina. Visioni e similitudini casuali. Chissà.
Questo lungo elenco di concordanze ci ricorda quanto «1984» fosse un romanzo militante: nel 1948, anno in cui uscì, moltissime allusioni al presente erano trasparenti. Ma soprattutto ci fa capire, ancora di più, come questo grido altissimo in difesa della libertà individuale fosse forte, già allora. Dunque, che siamo controllati dovunque dal «Grande fratello» non c’è dubbio alcuno. Controllati legalmente. È un paradosso, ma negli anni del trionfo della privacy i nostri dati viaggiano su Facebook e vengono venduti, le immagini entrano chissà in quanti dossier. Ma questo è un altro terreno. E così i giornalisti hanno dovuto affrontare, e lo fanno tutti i giorni, le fake news, la disinformazione.
Un tempo i nostri maggiori informatori erano i marescialli dei commissariati, i piantoni delle caserme, i ragazzi nei posti fissi degli ospedali (ricordate il giro degli ospedali che si faceva tutti i giorni?), ed era facile capire quando si veniva usati, bastava guardarsi negli occhi. Ora ci pensano comunicati, pdf, mail. Come distinguere le trappole? E poi le teorie di Orwell sull’uso dell’informazione delle informazioni si rigenerano tutti i giorni: ecco chi sospetta che le Torri gemelle se le siano inflitte gli americani, che Bin Laden sia una creatura di chissà chi e chissà per quale interesse, che il dibattito sui vaccini o non sia infognato e deviato da entrambe le parti. E così via. La manipolazione dell’informazione è un tema centrale in questa rilettura a ritroso. Diciamolo, «1984» ha incredibilmente anticipato una società nella sua evoluzione e nelle sue contraddizioni. Terrorismo, guerre informatiche, spionaggio, tecnologia sono realtà.
Certo è sempre più difficile distinguere. Che l’informazione sia pilotata molte volte mi pare evidente, non si capirebbe altrimenti perché ad ogni giro di governo si cambia tutti ad esempio in Rai (dal dg al direttori dei tg al cda) ma anche nei grandi giornali. Ma di lì a farsi condizionare totalmente ce ne passa. Vengono alla mente le immagini del bel film «Le vite degli altri», sui metodi e le indagini della Stasi, la polizia segreta. E sale un nodo in gola e qualche goccia di nostalgia. Forse era meglio quando scrivevamo a mano, giovani studenti a Torino, nel bar dell’Università in via Po, dopo un caffè che eravamo riusciti a pagare con una quotidiana fatica.